17 Apr Entropia
Entropia…
Carlo de Michele
30 dicembre 2004
L’ineluttabilità del significato d’un principio…
Lo sgomento di un’eclissi di sole…
Qualsiasi sistema isolato evolve verso uno stato di eqilibrio in cui permane indefinitamente…..
Cioè?:
Qualsiasi sistema organizzato, da una semplice pietra al più complesso dei mammiferi, tende naturalmente alla disgregazione.
Quindi ciò vale anche per gli esseri umani? Vuol dire che noi siamo destinati a morire e che tutto ha un termine…con poche speranze nell’aldilà?
Si, certo.
…e nemmeno l’anima si sottrae a questa legge?
La realtà umana è materiale e le sue funzioni od espressioni, come appunto ciò che noi indichiamo con la parola anima, non possono esimersi dal sottostare alle leggi generali della natura. Anche se la materialità dell’anima ha caratteristiche peculiari.
Mi rendo conto che io, come del resto, mi sembra, la cultura media generale, invece penso all’anima come trascendenza non materiale che aggiunge alla realtà animale quelle caratteristiche che la rendono umana. Se è invece solo materiale cos’è che posso definire “vita umana”?
Definire la vita umana non è semplice, quindi cercheremo prima di costruirci della idee di base. Parlando in generale, la vita è quel breve spazio di tempo, compreso tra la condizione di massima in-potenza e di massima im-potenza, in cui un aggregato molecolare detto “sistema complesso in equilibrio dinamico”, grazie al continuo apporto di energia dall’esterno, riesce ad aumentare la propria entalpia (cioè, in prima approssimazione, l’energia contenuta all’interno del sistema). Mi spiego meglio: dal concepimento alla nascita ogni animale cresce, cioè sviluppa quanto contenuto nel codice genetico realizzando il massimo della possibilità di vita relativo alla propria specie. Dalla nascita in poi ogni animale, nel contatto col proprio ambiente, realizza delle proprie possibilità quella parte che consentirà la vita del singolo individuo sino alla sua morte. Questo ciclo è caratteristico della materia vivente in ogni sua accezione. Per parlare di “vita umana” sarà necessario osservare molti altri particolari che emergeranno man mano che questa “dialettica” si svilupperà.
Bene, avrò pazienza. Allora possiamo chiarire il rapporto che c’è tra energia e materia in un essere vivente?
Se noi osserviamo lo sviluppo fetale vediamo che a partire dalle cellule fecondate si sviluppa un intero organismo. Ciò vuol dire che, per un periodo prestabilito, miliardi di molecole si aggregano per formare nuove cellule, organi, apparati. Perché ciò avvenga è necessario l’apporto di materia ed energia, cioè i mattoni per costruire il nuovo individuo e la malta per tenerli insieme. Tutto ciò avviene od opera esclusiva del corpo della madre, o della materia ed energia contenuta nell’uovo per gli animali non mammiferi, come pura espressione delle specifiche caratteristiche biologiche. Il feto è espressione passiva dell’attività dell’animale genitore che consente lo sviluppo delle potenzialità contenute nel genoma, così per una formica, ma potremmo anche dire per una pianta rispetto al suo seme, come per il feto umano. Dunque in tutta la fase fetale la madre (o l’uovo) fornisce energia e materia ed il feto si costruisce trattenendo i materiali di costruzione e l’energia necessaria per mantenerli coesi e renderli potenzialmente efficienti. Solo dopo la nascita il neonato dovrà attivamente cercare fonti da cui ricavare l’energia e la materia necessaria per auto mantenersi e compiere il lavoro necessario per trovare fonti alimentari adeguate. Inizia così un “bilancio energetico” e l’animale vivrà fin tanto che il bilancio è positivo.
La tanto diffusa idea di lavorare per raggiungere uno stato di sicurezza, di equilibrio, la famosa “posizione” in cui non è più necessario “darsi da fare”, allora, non nasce da una realtà biologica?
No, certamente no. Forse deriva dal fatto che l’essere umano fa fatica ad accettare che vivere è sinonimo di lavorare. Sembra che non sia facile accettare la “fatica di vivere”, ma questo concetto ha ben altre basi psicologiche. Per la realtà vivente, un equilibrio energetico stabile, considerato come un rapporto tra le proprie parti costitutive non più passibile di trasformazione, non esiste.
Esiste invece una sorta di continuo riequilibrio di forze in continua crescita e trasformazione rispetto agli stimoli dell’ambiente . Un essere vivente è dunque un sistema in equilibrio dinamico, al contrario invece di ciò che accade ad esempio per una bella colonna dorica che, una volta che sia stata forgiata e collocata resta stabile nel tempo, sottostando solo alle leggi dell’entropia.
I sistemi viventi sono organizzazioni instabili di parti (particelle, atomi, molecole, tessuti, organi) in continua evoluzione e adattamento che per mantenere la loro condizione unitaria individuale necessitano di sempre nuova energia. Ma, ancora, ogni nuovo apporto serve a stabilizzare una modifica che a sua volta dovrà essere bilanciata da un’altra trasformazione che richiede altra energia.
Dunque la vita si mantiene finché esiste una possibilità di crescita-evoluzione del sistema.
Rimanere uguali a sé stessi, cioè mantenere stabile una condizione precedentemente raggiunta, per l’uomo è impossibile. Per capire questa affermazione è necessario puntualizzare la differenza tra il concetto di Equilibrio e quello di Equilibrio dinamico. L’Equilibrio è una condizione di bilanciamento stabile di forze, di staticità che è del tutto estraneo alla realtà vivente. Equilibrio dinamico è invece quella condizione in cui ad ogni variazione di energia deve corrispondere una variazione di segno opposto così che il contenuto energetico totale del sistema resti invariato. Per chiarire: se un animale assume una certa quantità di cibo (=energia) per restare in equilibrio dovrà spendere quell’energia per alimentare il suo metabolismo e per muoversi. Se la quantità energetica assunta è maggiore delle necessità allora dovrà essere trasformata in materiali di riserva relativamente stabili poiché non è possibile mantenere uno squilibrio energetico per un tempo indefinito. Sembra un paradosso ma un essere vivente per restare in equilibrio deve sempre “muoversi”.
E’ interessante però notare che non solo gli alimenti forniscono energia (chimica) ma anche l’ambiente (energia fisica).
Anche se complesso mi sembra sufficientemente comprensibile il fatto che con gli alimenti, scissi nei processi metabolici, viene “introdotta” energia da usare per le funzioni vitali ma non è altrettanto chiaro come l’ambiente possa fornire direttamente energia fisica al corpo.
Certo non in modo diretto, ma attraverso l’attivazione di particolari strutture nervose specializzate dette recettori. Anzi, è proprio dall’elaborazione degli innumerevoli dati derivanti dalle infinite variazioni energetiche del raffinatissimo sistema sensoriale che l’essere umano ha sviluppato la sua singolare modalità di essere al mondo. Cerco di essere più chiaro:
la realtà esterna può essere conosciuta dall’uomo solo perché i suoi recettori sensoriali vengono attivati dai particolari tipi di energia esistenti nell’ambiente (Energia luminosa, termica, chimica, meccanica, elettrica o magnetica) dunque ciò che noi chiamiamo realtà altro non è se non quel particolare segmento dell’esistente le cui emissioni energetiche corrispondono al range di funzionamento dei nostri recettori o delle nostre ”protesi tecnologiche” quali microscopi, telescopi, rilevatori di raggi x, registratori di onde ecc che abbiamo costruito per captare ulteriori segnali non direttamente percepibili dai sensi).
Ad esempio un ago che punga la cute od una carezza che la sfiori, altro non sono che trasferimenti di energia cinetica da un corpo in movimento, cioè dotato di una certa quantità di energia cinetica, ai barocettori cutanei; il colore di un fiore o la melodia d’una composizione musicale sono trasferimenti di energia di onde agli specifici recettori retinici od acustici; l’odore di un inebriante profumo in ultima analisi non è che il trasferimento di energia chimica da una molecola particolare ai recettori olfattivi. Ovvero, lo scambio energetico rappresenta l’input che mette in moto un complesso meccanismo di trasmissione nervosa, attraverso l’eccitazione di specifici recettori.
Ma… con tutte queste immagini mi sembra che siamo scivolati dal campo delle realtà scientifiche a quello delle “emozioni”. C’è il rischi che con questo metodo di ricerca possiamo perdere la poesia e ridurre ciò che dà senso alla vita a semplici trasferimenti di energia?
No! Certamente no, anzi sono assolutamente d’accordo nell’affermare che le emozioni, il modo totalmente irrazionale di viverle, siano la base di ciò che fa caratteristica ed unica la vita umana, sino a dire che esse sono alla base del pensiero, anche di quello che ci piace definire “razionale”. Ciò non toglie che il primo momento del complessissimo processo sensazione-emozione-percezione-conoscenza-pensiero è costituito dal semplice squilibrio determinato dall’impatto di una qualsiasi forma di energia con i terminali del nostro sistema sensoriale. Tale evento determina un incremento energetico, una irritazione, capace di innescare una sorta di reazione a catena che interessa innumerevoli strutture nervose, sia del sistema senso-motorio che del sistema neurovegetativo e, successivamente tutti gli altri sistemi (endocrino, immunitario, psichico). Tale meccanismo è comune a tutti gli animali viventi. Ciò che fa diverse le varia specie sino all’uomo non è il meccanismo fondamentale, ma il modo in cui tutto il processo è percepito, vissuto, dalle diverse specie. Dunque il processo base che ha permesso lo sviluppo dal semplice riflesso assonico, (cioè la più semplice risposta motoria ad una stimolo tattile), alla più alta espressione di fantasia, è rappresentato dalla necessità di riportare all’equilibrio un sistema in cui l’ambiente ha determinato un incremento di energia. Ciò che permette all’uomo di rispondere con una poesia all’attivazione dei corpuscoli del Pacini o di Meissner (recettori tattili) da parte dello sfregamento di una mano amorosa è la capacità tipicamente umana di attribuire “senso” a semplici eventi fisico-chimico-biologici.
Questa irritazione attiva una corrispondente reazione ed allora è proprio attraverso questa necessità naturale di ripristinare sempre un nuovo equilibrio energetico interno di fronte a qualsiasi alterazione che si realizza ciò che noi chiamiamo “rapporto col mondo”.
Possiamo cominciare a parlare dell’anima?
Se accettiamo l’origine materiale della realtà umana e delle sue manifestazioni dobbiamo abbandonare il termine anima, che nella cultura diffusa ha una connotazione eminentemente religiosa, e più propriamente cominciare a parlare di “Psiche”, il che significa che essa non è “altro” rispetto alla realtà materiale del corpo vivente ma che ne è una sua speciale espressione emergente dallo specifico modo in cui le strutture nervose che si correlano a tutte le “intelligenze” del corpo “leggono” le interazioni col mondo esterno e con l’umano altro da sé.
Allora un metodo per comprendere come si articolino i vari processi relativi all’attività delle strutture e sistemi verosimilmente interessati alla formazione della realtà psichica, potrebbe essere quello di studiare le modalità attraverso cui, dopo la nascita, l’energia proveniente dall’esterno viene processata sin dai primi momenti di attività delle strutture nervose in formazione.
Seguire cioè la storia dell’energia, dal momento in cui, per un bizzarro evento in cui due esseri umani si scambiano del materiale genetico, la crescita dell’entropia viene momentaneamente arrestata per costruire un’entità che lotta per accrescere la propria energia interna (entalpia), sino al momento in cui il termine della dinamica energetica detto morte dell’essere vivente, restituisce all’entropia la facoltà di crescere indefinitamente. La vita così potrebbe essere definita come la dinamica energetica tra il momento del massimo dell’entalpia, cioè il momento della nascita che rappresenterebbe il massimo delle potenzialità umane, ed il massimo dell’entropia, cioè la morte dell’individuo che ha consumato tutta la sua energia interna per definirsi, sino al momento in cui essa diviene insufficiente per mantenere l’aggregazione molecolare di ciò che può essere stato oggetto e fonte di amore, di creatività, di arte.