Attualità

L’IMPORTANZA DELLE IMMAGINI

Carlo de Michele

27 novembre 2011

 

Sogni, miti, favole, religioni, ricordi, arte, inganni, verità.

Ricordi e poi cultura.

Comunità e politica.

Un filo rosso lega tutto: La capacità di creare immagini; la capacità di crearne dentro di sé e di suscitarne negli altri.

La capacità di manipolare le immagini è sempre stata la via maestra della conquista del potere.

Perché?

Perché la possibilità di fare un’immagine è la base del pensiero umano.

Poi viene la capacità di inventare parole per descrivere e comunicare le immagini create.

Il linguaggio nasce in funzione dell’ esigenza di comunicare ad altri le proprie immagini interne.

Per comunicare informazioni sull’ambiente o regole di comportamento o strumenti di sopravvivenza sarebbe bastato, come ancora è sufficiente per i Primati, il linguaggio mimico. Comunicare ciò che è uguale per tutti richiede solo pochi, semplici  gesti simbolici.

Ma una propria immagine interiore non può essere comunicata a gesti. E’ nota solo a noi e contiene emozioni provate unicamente dal suo creatore, e per comunicarla è stato necessario evocare complicati gorgheggi evocativi, che riecheggiano il “canto” dei neonati… o delle Sirene. Dal canto al linguaggio verbale. La specializzazione della modulazione vocale ci permette di comunicare contenuti mentali assolutamente personali ed unici.

Non credo proprio che il linguaggio sia nato per indicare oggetti o necessità. Troppo pigri gli uomini: avremmo continuato semplicemente ad indicarli nei secoli dei secoli…amen.

Invece la spinta interna ad esprimere l’onda di emozioni che nasce dal centro del cuore e sembra spingere la pelle sino ad esplodere in conseguenza dell’assurdità senza parole che è lo sfregamento di mucose amanti, fa nascere nella gola l’urlo che poi diventa canto, che poi diviene poesia, di parole più ricche di senso che di significato, parole prossime alla musica ma vicine alle arti figurative, che toccano la pelle come a dare forma e a levigare un marmo, che emergono quando l’onda di passione si è fatta turbinio di colore, definizione di forme mai viste, di immagini di sogno, libertà di trasformare la forma obbligata degli oggetti esistenti, piegare la linea fino a definire non tanto i contorni dell’esistente quanto a disegnare la forma infinitamente cangiante dei nostri pensieri.

Immagini create, né viste né ricordate, nate dentro di sé per l’attività della mente, che si mescolano con le immagini registrate e ricordate, nate dalla semplice reazione degli organi di senso alle variazioni energetiche indotte dall’impatto con gli oggetti esterni.

Immagini diverse quelle create e quelle viste e ricordate, ma vere entrambe.

Peraltro forse possiamo azzardare l’idea che immagini oggettive di realtà esterne che impattano i nostri recettori sensoriali e che vengano registrate ed archiviate in modo rigorosamente lineare proprio non esistono.

Non esiste stimolo che induca una reazione senza contemporaneamente indurre una risposta dei nostri sistemi interni di vigilanza e difesa.

Un’immagine ricordata è in realtà un’immagine ricostruita funzione di uno stimolo che colpisce la nostra reattività irrazionale.

E’ la nostra fisiologia.

I nostri recettori non stanno lì semplicemente  per registrare ed archiviare. I nostri recettori sensoriali, così come è dalla nascita della prima cellula, servono per cogliere le continue modificazioni dell’ambiente esterno, comunicarle alle strutture interne e attivare i meccanismi automatici interni perché modifichino i livelli e le tipologie di funzionamento in funzioni delle modificazioni ambientali così da mantenere l’equilibrio interno. La conoscenza viene dopo, sia come puro apprendimento motorio automatico, sia come organizzazione dei pensieri relativi agli eventi.

Pensieri….ma come si passa dalle reazioni recettoriali alla apparente immaterialità d’un pensiero? Che relazione c’è tra il ricordo d’un fatto ed il pensiero in base al quale possiamo raccontarlo?

Il ricordo può essere inconsapevole. Ogni nostro singolo neurone può memorizzare uno stimolo degno d’essere ricordato: se uno stimolo ha certe caratteristiche un neurone modifica la propria struttura anatomica creando una nuova sinapsi. E’ così che quell’evento resta impresso nella nostra struttura. E’ questo il meccanismo che ognuno di noi ha usato per imparare a camminare o andare in bicicletta, o che ogni atleta usa, anche da adulto, quando impara ed automatizza un nuovo gesto tecnico.

Ma il ricordo, anche inconsapevole, non è mai il ricordo dell’oggetto, ma il ricordo della modificazione del nostro corpo che quell’oggetto ha determinato in noi. Il ricordo è sempre ricordo di noi stessi in quella situazione. E questo modo di ricordare è comune a tutti gli esseri viventi.

Quando è comparso ciò che noi chiamiamo ricordo cosciente?

Quando, in concomitanza con lo sviluppo della massa cerebrale, l’animale implume detto homo ha perso il rassicurante determinismo relativo alla nicchia biologica di appartenenza ( ricordiamo che ogni animale nasce perfettamente adeguato all’ambiente in cui dovrà vivere, come il leone nella savana o l’orso bianco al polo, mentre l’uomo alla nascita non è adeguato a vivere in nessun posto, ma ha la potenzialità di vivere ovunque).

Ciò vuol dire che per poter vivere questo animale deve in parte modificare sé stesso  adeguandosi all’ambiente e, fondamentalmente, modificare l’ambiente (purtroppo e troppo spesso sino distruggerlo) per renderlo adeguato alle sue esigenze.

Di fronte al problema di “inventare” un nuovo animale che possedesse già alla nascita tutte le strutture e le funzioni istintive adeguate queste nuove esigenze, la natura ha scelto una modalità molto più economica:   invece di creare un animale con qualche milione di geni e con un sistema nervoso centrale enorme, portando alle estreme conseguenze ciò che si era dimostrato valido sino ai nostri più vicini antenati, cioè le scimmie antropomorfe, ha selezionato un animale privo di istinti, ma con una corteccia cerebrale sufficientemente grande rispetto alla massa corporea, capace di sostituire l’automaticità delle risposte inconsapevoli determinate da circuiti neuromotori predisposti, con la complessità di risposte create all’istante da una attività corticale capace di fare nessi e inventare soluzioni.

A questa novità anatomica è seguito lo sviluppo di nuove importantissime funzioni: la consapevolezza di sé e la nascita del pensiero.

Un pensiero particolare, che doveva tenere presente contemporaneamente il dato esterno, cioè la corrispondenza tra l’attività dei propri recettori e l’oggetto che li aveva stimolati, e la reazione globale dell’organismo, cioè la reazione neurovegetativa che potremmo anche chiamare proto-emozione.

Il tutto, sempre in ossequio al principio della massima economia, viene sintetizzato in una immagine mentale che mantenga una relazione con l’oggetto ma che lo modifica in funzione della reazione emotiva che esso ci ha determinato. Per fare un esempio se due persone diverse vedono lo stesso leone allo zoo quella che prova paura verosimilmente poi ricorderà un leone a fauci spalancate nell’atto di aggredire mentre quella che non ha avuto paura ricorderà un leone sdraiato e sonnacchioso somigliante ad un grande gatto in siesta. Il racconto poi che ne faranno sarà uno ricco di particolari atti a suscitare nell’uditore la stessa emozione di paura, con ulteriore modificazione del dato di realtà, mentre l’altro ci suggerirà un’immagine oleografica da valle dell’Eden.

E nessuno dei due mente!

Dunque la nostra mente ha come compito principale non quello di costruire archivi fotografici come documento di verità oggettive  (lasciamo questo compito a filosofi razionalisti) ma quello di costruire una conoscenza del mondo adeguata al nostro particolare modo di essere: noi dobbiamo conoscere il mondo secondo la nostra particolare modalità e possibilità di viverlo. Ognuno di noi ha il faticoso compito di andare nel mondo per riceverne impressioni, vivere le proprie reazioni e sintetizzare questi eventi in una immagine creata che costituirà l’elemento basilare della nostra conoscenza e l’imperativo dei nostri comportamenti. Ciò che noi comunichiamo attraverso i linguaggio verbale è proprio la singolarità delle nostre conoscenze cariche di senso soggettivo. La somma delle immagini create costituisce quell’elemento emergente che è la consapevolezza storica del sé.

Vorrei notare che le nostre biografie sono in realtà “favole” con cronologie artefatte dalla scelta di eventi significativi, enfatizzati, ridimensionati o camuffati o semplicemente ricordati in modo da comunicare la percezione del senso che noi attribuiamo alle nostre vite. Tanto che abbiamo dovuto inventare marcatori di tempo e spazio per dare una organizzazione “razionale” a quanto invece vagherebbe nell’indefinitezza della atemporalità del nostro spazio interiore.

E comunicare attraverso storie inventate è comunemente accettato perché il modo di comunicare è in realtà sempre soggettivo, fondamentalmente determinato del reciproco movimento dall’invisibile, del non oggettivo, dell’irrazionale. Anche se ciò che non si vede ma che percepiamo perché diverso o addirittura seducente, comunque destabilizzante, può essere immaginato pericoloso e quindi rinchiuso dietro le sbarre della razionalità.

Succede allora che le comunità si associano intorno ad una favola fondante e data come verità identitaria, un racconto di emozioni condivise, la costruzione di radici che rendano meno sconosciuto   l’uno all’altro. Sicurezza e identificazione nei valori comuni invece dell’incertezza  dell’identità e del rischio della seduzione…Sopravvivenza e riproduzione invece di amore. Rinuncia alla creatività della propria fantasia per la sicurezza di condividere una favola buona per tutti. Credere invece di creare pensiero e conoscenza.

E’ evidente che il massimo compromesso che l’uomo senza identità può fare per non diventare completamente pazzo è quello di inventare religioni. La religione è il supermercato della fantasia. Sogni, motivazione e senso come produzioni industriali, vendibili a basso prezzo (si fa per dire) e usabili da tutti. Perché faticare per creare i propri sogni, scoprire i propri desideri, la propria visione del mondo, confrontarli con altri diversi da sé per verificarne il valore umano, quando è sufficiente fare contratti in cui si dichiara una volta per tutte quali saranno affetti, pensieri e comportamenti della propria vita?

D’altro canto per la nostra sopravvivenza materiale è necessaria la conoscenza oggettiva del mondo materiale, per governarlo e trarne tutto ciò che soddisfa i nostri bisogni. Per tanto  abbiamo inventato una modalità di pensiero che riteniamo oggettivo se ubbidisce e si struttura secondo regole condivise, e se mantiene una rigida corrispondenza con i fatti materiali; un pensiero che non subisca le modifiche che inevitabilmente le nostre reazioni individuali (emozioni) determinano. Questa modalità, detta scientifica, di creare pensiero sembra obbligatoria e quindi, almeno dal 1600 ad oggi, se non vogliamo dire dalla nascita del pensiero filosofico ad oggi, cultura e pedagogia sono state piegate alla necessità di far apprendere verità oggettive, pulite da deformazioni emotive. Verità, dati crudi, che non possono essere trasformati in immagini. Scienziati computerizzati che non colgono il valore umano delle loro verità. Verità razionale che può uccidere la verità irrazionale del pensiero creativo; verità che, private della struttura intima  costituita dal senso umano dei nostri pensieri, c possono anche essere distorte sino alla distruzione, dell’uomo e dell’ambiente in nome di concentrati di follia come il profitto.

Ma evidentemente, senza un minimo di fantasia, sia pure corrotta e mercificata, non è possibile vivere, e allora è facile vedere fior di scienziati genuflessi nei templi, tecnici governativi rigorosamente cattolici. Le favole delle religioni che resistono immutate da migliaia d’anni incuranti dell’appalesarsi sempre più evidente dell’inganno e della “razionalità” che le pervade.

Perché sono le uniche narrazioni in cui abbiamo alienato la creatività, il fantastico, l’irrazionale, il miracoloso.

Il miracolo, la guarigione miracolosa, non deve  essere pensato come capacità del pensiero di concentrarsi fino a cogliere l’errore della esclusione dell’irrazionale e che invece può riprendere il corretto rapporto con le funzioni del corpo, ma deve essere pensato come un evento trascendente.  Chi si appropria della mediazione col trascendente si identifica col potere.

Il pensiero si nutre di immagini, che dovrebbero essere sempre nuovamente create. La fatica di vivere, che è il prezzo della liberta e dell’umanità.

Entropia…        

Carlo de Michele

30 dicembre 2004

 

L’ineluttabilità del significato d’un principio…

Lo sgomento di un’eclissi di sole…

Qualsiasi sistema isolato evolve verso uno stato di eqilibrio in cui permane indefinitamente…..

Cioè?:

Qualsiasi sistema organizzato, da una semplice pietra al più complesso dei mammiferi, tende naturalmente alla disgregazione.

Quindi ciò vale anche per gli esseri umani? Vuol dire che noi siamo destinati a morire e che tutto ha un termine…con poche speranze nell’aldilà?

Si, certo.

…e nemmeno l’anima si sottrae a questa legge?

La realtà umana è materiale e le sue funzioni od espressioni, come appunto ciò che noi indichiamo con la parola anima, non possono esimersi dal sottostare alle leggi generali della natura. Anche se la materialità dell’anima ha caratteristiche peculiari.

Mi rendo conto che io, come del resto, mi sembra, la cultura media generale, invece penso all’anima come trascendenza non materiale che aggiunge alla realtà animale quelle caratteristiche che la rendono umana. Se è invece solo materiale cos’è che posso definire “vita umana”?

Definire la vita umana non è semplice, quindi cercheremo prima di costruirci della idee di base. Parlando in generale, la vita è quel breve spazio di tempo, compreso tra la condizione di massima in-potenza e di massima im-potenza, in cui un aggregato molecolare detto “sistema complesso in equilibrio dinamico”, grazie al continuo apporto di energia dall’esterno, riesce ad aumentare la propria entalpia (cioè, in prima approssimazione, l’energia contenuta all’interno del sistema). Mi spiego meglio: dal concepimento alla nascita ogni animale cresce, cioè sviluppa quanto contenuto nel codice genetico realizzando il massimo della possibilità di vita relativo alla propria specie. Dalla nascita in poi ogni animale, nel contatto col proprio ambiente, realizza delle proprie possibilità quella parte che consentirà la vita del singolo individuo sino alla sua morte. Questo ciclo è caratteristico della materia vivente in ogni sua accezione. Per parlare di “vita umana” sarà necessario osservare molti altri particolari che emergeranno man mano che questa “dialettica” si svilupperà.

Bene, avrò pazienza. Allora possiamo chiarire il rapporto che c’è tra energia e materia in un essere vivente?

Se noi osserviamo lo sviluppo fetale vediamo che a partire dalle cellule fecondate si sviluppa un intero organismo. Ciò vuol dire che, per un periodo prestabilito, miliardi di molecole si aggregano per formare nuove cellule, organi, apparati. Perché ciò avvenga è necessario l’apporto di materia ed energia, cioè i mattoni per costruire il nuovo individuo e la malta per tenerli insieme. Tutto ciò avviene od opera esclusiva del corpo della madre, o della materia ed energia contenuta nell’uovo per gli animali non mammiferi, come pura espressione delle specifiche caratteristiche biologiche. Il feto è espressione passiva dell’attività dell’animale genitore che consente lo sviluppo delle potenzialità contenute nel genoma, così per una formica, ma potremmo anche dire per una pianta rispetto al suo seme, come per il feto umano. Dunque in tutta la fase fetale la madre (o l’uovo) fornisce energia e materia ed il feto si costruisce trattenendo i materiali di costruzione e l’energia necessaria per mantenerli coesi e renderli potenzialmente efficienti. Solo dopo la nascita il neonato dovrà attivamente cercare fonti da cui ricavare l’energia e la materia necessaria per auto mantenersi e compiere il lavoro necessario per trovare fonti alimentari adeguate. Inizia così un “bilancio energetico” e l’animale vivrà fin tanto che il bilancio è positivo.

La tanto diffusa idea di lavorare per raggiungere uno stato di sicurezza, di equilibrio, la famosa “posizione” in cui non è più necessario “darsi da fare”, allora, non nasce da una realtà biologica?

No, certamente no. Forse deriva dal fatto che l’essere umano fa fatica ad accettare che vivere è sinonimo di lavorare. Sembra che non sia facile accettare la “fatica di vivere”, ma questo concetto ha ben altre basi psicologiche. Per la realtà vivente, un equilibrio energetico stabile, considerato come un rapporto tra le proprie parti costitutive non più passibile di trasformazione, non esiste.

Esiste invece una sorta di continuo riequilibrio di forze in continua crescita e trasformazione rispetto agli stimoli dell’ambiente . Un essere vivente è dunque un sistema in equilibrio dinamico, al contrario invece di ciò che accade ad esempio per una bella colonna dorica che, una volta che sia stata forgiata e collocata resta stabile nel tempo, sottostando solo alle leggi dell’entropia.

I sistemi viventi sono organizzazioni instabili di parti (particelle, atomi, molecole, tessuti, organi) in continua evoluzione e adattamento che per mantenere la loro condizione unitaria individuale necessitano di sempre nuova energia. Ma, ancora, ogni nuovo apporto serve a stabilizzare una modifica che a sua volta dovrà essere bilanciata da un’altra trasformazione che richiede altra energia.

Dunque la vita si mantiene finché esiste una possibilità di crescita-evoluzione del sistema.

Rimanere uguali a sé stessi, cioè mantenere stabile una condizione precedentemente raggiunta, per l’uomo è impossibile. Per capire questa affermazione è necessario puntualizzare la differenza tra il concetto di Equilibrio e quello di Equilibrio dinamico. L’Equilibrio è una condizione di bilanciamento stabile di forze, di staticità che è del tutto estraneo alla realtà vivente. Equilibrio dinamico è invece quella condizione in cui ad ogni variazione di energia deve corrispondere una variazione di segno opposto così che il contenuto energetico totale del sistema resti invariato. Per chiarire: se un animale assume una certa quantità di cibo (=energia) per restare in equilibrio dovrà spendere quell’energia per alimentare il suo metabolismo e per muoversi. Se la quantità energetica assunta è maggiore delle necessità allora dovrà essere trasformata in materiali di riserva relativamente stabili poiché non è possibile mantenere uno squilibrio energetico per un tempo indefinito. Sembra un paradosso ma un essere vivente per restare in equilibrio deve sempre “muoversi”.

E’ interessante però notare che non solo gli alimenti forniscono energia (chimica) ma anche l’ambiente (energia fisica).

Anche se complesso mi sembra sufficientemente comprensibile il fatto che con gli alimenti, scissi nei processi metabolici, viene “introdotta” energia da usare per le funzioni vitali ma non è altrettanto chiaro come l’ambiente possa fornire direttamente energia fisica al corpo.

Certo non in modo diretto, ma attraverso l’attivazione di particolari strutture nervose specializzate dette recettori. Anzi, è proprio dall’elaborazione degli innumerevoli dati derivanti dalle infinite variazioni energetiche del raffinatissimo sistema sensoriale che l’essere umano ha sviluppato la sua singolare modalità di essere al mondo. Cerco di essere più chiaro:

la realtà esterna può essere conosciuta dall’uomo solo perché i suoi recettori sensoriali vengono attivati dai particolari tipi di energia esistenti nell’ambiente (Energia luminosa, termica, chimica, meccanica, elettrica o magnetica) dunque ciò che noi chiamiamo realtà altro non è se non quel particolare segmento dell’esistente le cui emissioni energetiche corrispondono al range di funzionamento dei nostri recettori o delle nostre ”protesi tecnologiche” quali microscopi, telescopi, rilevatori di raggi x, registratori di onde ecc che abbiamo costruito per captare ulteriori segnali non direttamente percepibili dai sensi).

Ad esempio un ago che punga la cute od una carezza che la sfiori, altro non sono che trasferimenti di energia cinetica da un corpo in movimento, cioè dotato di una certa quantità di energia cinetica, ai barocettori cutanei; il colore di un fiore o la melodia d’una composizione musicale sono trasferimenti di energia di onde agli specifici recettori retinici od acustici; l’odore di un inebriante profumo in ultima analisi non è che il trasferimento di energia chimica da una molecola particolare ai recettori olfattivi. Ovvero, lo scambio energetico rappresenta l’input che mette in moto un complesso meccanismo di trasmissione nervosa, attraverso l’eccitazione di specifici recettori.

Ma… con tutte queste immagini mi sembra che siamo scivolati dal campo delle realtà scientifiche a quello delle “emozioni”. C’è il rischi che con questo metodo di ricerca possiamo perdere la poesia e ridurre ciò che dà senso alla vita a semplici trasferimenti di energia?

No! Certamente no, anzi sono assolutamente d’accordo nell’affermare che le emozioni, il modo totalmente irrazionale di viverle, siano la base di ciò che fa caratteristica ed unica la vita umana, sino a dire che esse sono alla base del pensiero, anche di quello che ci piace definire “razionale”. Ciò non toglie che il primo momento del complessissimo processo sensazione-emozione-percezione-conoscenza-pensiero è costituito dal semplice squilibrio determinato dall’impatto di una qualsiasi forma di energia con i terminali del nostro sistema sensoriale. Tale evento determina un incremento energetico, una irritazione, capace di innescare una sorta di reazione a catena che interessa innumerevoli strutture nervose, sia del sistema senso-motorio che del sistema neurovegetativo e, successivamente tutti gli altri sistemi (endocrino, immunitario, psichico). Tale meccanismo è comune a tutti gli animali viventi. Ciò che fa diverse le varia specie sino all’uomo non è il meccanismo fondamentale, ma il modo in cui tutto il processo è percepito, vissuto, dalle diverse specie. Dunque il processo base che ha permesso lo sviluppo dal semplice riflesso assonico, (cioè la più semplice risposta motoria ad una stimolo tattile), alla più alta espressione di fantasia, è rappresentato dalla necessità di riportare all’equilibrio un sistema in cui l’ambiente ha determinato un incremento di energia. Ciò che permette all’uomo di rispondere con una poesia all’attivazione dei corpuscoli del Pacini o di Meissner (recettori tattili) da parte dello sfregamento di una mano amorosa è la capacità tipicamente umana di attribuire “senso” a semplici eventi fisico-chimico-biologici.

Questa irritazione attiva una corrispondente reazione ed allora è proprio attraverso questa necessità naturale di ripristinare sempre un nuovo equilibrio energetico interno di fronte a qualsiasi alterazione che si realizza ciò che noi chiamiamo “rapporto col mondo”.

Possiamo cominciare a parlare dell’anima?

Se accettiamo l’origine materiale della realtà umana e delle sue manifestazioni dobbiamo abbandonare il termine anima, che nella cultura diffusa ha una connotazione eminentemente religiosa, e più propriamente cominciare a parlare di “Psiche”, il che significa che essa non è “altro” rispetto alla realtà materiale del corpo vivente ma che ne è una sua speciale espressione emergente dallo specifico modo in cui le strutture nervose che si correlano a tutte le “intelligenze” del corpo  “leggono” le interazioni col mondo esterno e con l’umano altro da sé.

Allora un metodo per comprendere come si articolino i vari processi relativi all’attività delle strutture e sistemi verosimilmente interessati alla formazione della realtà psichica, potrebbe essere quello di studiare le modalità attraverso cui, dopo la nascita, l’energia proveniente dall’esterno viene processata sin dai primi momenti di attività delle strutture nervose in formazione.

Seguire cioè la storia dell’energia, dal momento in cui, per un bizzarro evento in cui due esseri umani si scambiano del materiale genetico, la crescita dell’entropia viene momentaneamente arrestata per costruire un’entità che lotta per accrescere la propria energia interna (entalpia), sino al momento in cui il termine della dinamica energetica detto morte dell’essere vivente, restituisce all’entropia la facoltà di crescere indefinitamente. La vita così potrebbe essere definita come la dinamica energetica tra il momento del massimo dell’entalpia, cioè il momento della nascita che rappresenterebbe il massimo delle potenzialità umane, ed il massimo dell’entropia, cioè la morte dell’individuo che ha consumato tutta la sua energia interna per definirsi, sino al momento in cui essa diviene insufficiente per mantenere l’aggregazione molecolare di ciò che può essere stato oggetto e fonte di amore, di creatività, di arte.

RIFLESSIONI SULLE MEDICINE ALTERNATIVE

 

Dr. Carlo de Michele

6 gennaio 2015

 

L’ampia diffusione delle “Medicine non convenzionali” è il segno di una diffusa e crescente insoddisfazione del pubblico nei confronti della “Medicina scientifica” (più propriamente definita “Medicina Basata sull’Evidenza” -EBM-), anche se, di fronte ad eventi di particolare gravità, ben pochi accettano di rinunciare   ad un ricovero ospedaliero con tanto di terapie allopatiche in nome di una ortodossia alternativa.

L’ “altra medicina” sembra quindi riferirsi preferibilmente alla gestione dei disturbi di difficile definizione o al contenimento delle manifestazioni di cronicità che, pur se non minacciano la vita, hanno la capacità di renderla penosa.

Ed è proprio in questi ambiti che il paziente non trova facilmente dalla Medicina Basata sull’Evidenza le risposte che desidera avere: egli percepisce il dolore della “sua” malattia, sente di soffrire globalmente in quanto persona e non in quanto possessore di un organo malato e non ritiene adeguato essere considerato, quando va bene, “un caso di…” frutto dell’applicazione di un protocollo diagnostico.

La medicina tradizionalmente scientifica è figlia dell’applicazione del metodo galileiano, quello cioè che, rigidamente basato sul principio di causa-effetto, ha avuto il grande merito di aver separato il concetto di malattia fisica da quello metafisico-religioso di Male, di aver concepito la terapia per la guarigione e di averla distinta dalle pratiche empiristiche, di aver consentito lo sviluppo delle tecnologie diagnostico-terapeutiche oggi indispensabili, di aver spinto la conoscenza sino alla biologia molecolare ed alla genomica.

Oggi però, questa impostazione del pensiero medico mostra i suoi limiti, da una parte nel non essere sufficientemente duttile per affrontare una ridefinizione delle conoscenze medico-biologiche sulla base della teoria della complessità, dall’altra nell’essersi asservita eccessivamente alle leggi di mercato.

In tal modo la Medicina Scientifica finisce per entrare in conflitto proprio con quegli sparuti gruppi di liberi ricercatori che, considerando il corpo umano come la massima espressione della “complessità” (cioè di un sistema il cui senso è qualcosa in più della somma dei suoi componenti), esprimono la punta avanzata della ricerca bio-medica mentre lascia spazio a chi, magari sulla base di intuizioni parziali, propone metodiche terapeutiche intrise di elementi emotivo-filosofico-empirici.

Se un individuo è tale perché esprime la sua capacità di vivere in modo assolutamente singolare pur se i suoi organi e la loro organizzazione complessiva sono pressoché identici in ogni elemento della stessa specie, ne consegue che la malattia non può essere definita in modo completo da una serie di dati quantitativi che indicano lo stato morfo-funzionale dei suoi apparati. E’ necessario capire in che modo un certo organo alterato si relazioni a tutto il resto del corpo, in che modo il “sistema” stia rispondendo a tale evento, in che modo questo processo rappresenti una riduzione di capacità vitale per l’organismo e sofferenza per l’individuo.

Dunque, secondo questa nuova visione, è importare prestare attenzione anche ai sistemi di comunicazione attraverso cui le parti del corpo scambiano informazioni sullo stato funzionale per mantenere un valido equilibrio interno, nel rapporto continuo con l’ambiente esterno.

L’uomo, come tutti i “sistemi aperti”, è immerso in un continuo flusso energetico, in stretta relazione con l’ambiente, poiché deve assorbire energia per il mantenimento del proprio equilibrio e rilasciare i prodotti di scarto in un processo ecologico che coinvolge in una stretta rete tutti gli esseri viventi, poiché gli scarti di una specie rappresentano la fonte energetica di un’altra, secondo un ciclo continuo che non può essere interrotto in nessun punto senza che tutta la rete ne soffra gravemente.

Considerare che questi processi si svolgano secondo i principi della complessità significa capire che uno stimolo (qualsiasi elemento che entri in un organismo, come energia, sostanza chimica, germi, traumi ecc.) può determinare nei diversi individui risposte diverse di intensità non necessariamente proporzionali all’intensità dello stimolo e che risposte simili possono essere determinate (in individui diversi come nello stesso individuo) da cause diverse.

 

E’ ovvio che applicando solo la diagnostica convenzionale non è possibile affrontare tali problemi, e che è necessario riuscire a capire in che modo in ogni singolo individuo una certa causa sia arrivata a produrre un determinato sintomo.

Questa impostazione sta conquistando spazi presso taluni immunologi e neurologi che stanno affrontando i problemi della terapia attraverso la immuno o la neuro modulazione con notevoli successi in campo sia teorico che pratico. Sta diventando così possibile superare il concetto tanto caro all’industria farmaceutica che ogni disturbo sia legato ad una precisa e specifica causa e che quindi possa essere curato con una nuova e specifica molecola.

Ovviamente a questi risultati si è arrivati attraverso l’applicazione dei concetti di complessità alle più recenti acquisizione in campo di neuroscienze e di immuno-endocrinologia.

Sembra quindi di poter affermare che oggi comincia ad essere possibile superare l’apparente antinomia tra certezza scientifica e indeterminatezza soggettiva; possiamo forse pensare che sia finita la condanna a scegliere solo tra il riduzionismo scientista, che di fatto annulla la realtà individuale, e le interpretazioni filosofico-religiose che, anche se più prossime al sentire individuale, sono prive di condivisibilità universale.

 

Credo però che, quando si assumono responsabilità nei confronti della vita di altri essere umani, sia indispensabile esprimere comportamenti che siano dotati di tutti i requisiti necessari a renderli affidabili.

 

Ciò significa che, nel caso di comportamenti medici, è necessario che siano rispettate alcune irrinunciabili regole di coerenza: che ogni atto derivi dalla conoscenza più profonda possibile della fisiopatologia e quindi sia coerente con una specifica teoria; che l’effetto ottenuto sia effettivamente prodotto da ciò che è dichiarato agente terapeutico e non da qualsiasi altro fattore concomitante o latente; che esso si manifesti attraverso un meccanismo di azione (secondo regole lineari o complesse che siano) comunque dimostrabile; che gli effetti constatati corrispondano agli effetti attesi e che non si sovrappongano ai processi di guarigione spontanea o all’effetto placebo.

E’ necessario che tutto sia accettabile non per fede, per tradizione o per autorità della fonte ma per la possibilità di verificare o falsificare (criticare) il processo di pensiero che lo ha generato in funzione di un metodo dichiarato.

Questa esigenza di coerenza non significa l’automatica esclusione di qualsiasi pratica terapeutica basata sull’empirismo o su antiche tradizioni: significa che, al lume delle conoscenze ora disponibili, è necessario sottoporre qualsiasi sapere al vaglio di attente ricerche, verifiche, attraverso metodiche capaci di valutare anche aspetti qualitativi e non solo quantitativi (statistici) per ciò che attiene alla percezione di salute.

 

Al di fuori di questi requisiti minimi di credibilità non fideistica, non possiamo affermare di trovarci di fronte a comportamenti medici, ma a rapporti interpersonali, talvolta interpretabili come particolari forme di alleanza terapeutico-consolatoria, che, pur se dotati di effetti pratici a volte considerati positivamente, hanno il grave difetto di nascondere dinamiche psicologiche il cui valore non si esaurisce nella eventuale scomparsa di un certo sintomo.

Talvolta le pratiche mediche non convenzionali, più o meno consapevolmente, scivolano nel campo della pura empatia. Attraverso un malinteso olismo medico e paziente convergono sull’idea che un approccio medico più umanamente disponibile e una diagnosi posta non attraverso l’impersonale approssimazione statistica degli strumenti tecnologici, ma secondo pratiche più o meno ritualizzate, porti automaticamente alla comprensione delle sofferenze più personali. La terapia poi, proposta attraverso interventi dolci, spesso estremamente ritualizzati, dovrebbe poi portare non solo alla scomparsa del sintomo, ma anche alla riconquista della serenità e percezione di benessere.

Sono d’accordo sul fatto che milioni di persone trovino tutto ciò assolutamente positivo e che considerino i limiti di questi metodi certamente preferibili ai possibili danni derivanti da errori diagnostci o alla enorme quantità di effetti indesiderati da farmaci.

Tuttavia credo di dover stigmatizzare i gravi rischi che si corrono sia quando il contenimento di un sintomo può pericolosamente ritardare un intervento decisivo su una patologia fisica grave, sia quando una somatizzazione può essere l’unico segno che un attento psichiatra potrebbe valutare per cogliere la latenza di una psicopatologia anche grave, assolutamente sconosciuta (o annullata) dal paziente, dai famigliari o anche dal medico curante.

In conclusione, per arrivare alla tanto agognata “medicina dal volto umano” credo che sia necessario un grande sforzo da parte di chi voglia esercitare la professione medica: è necessario possedere una solida formazione scientifica, poiché sono innegabili i successi della conoscenza basata sui principi lineari della fisica newtoniana senza però negare il cambiamento di paradigma imposto dal progredire delle conoscenze proprio nel campo della fisica. E’ però altresì necessario sviluppare anche il lato così detto empatico portandolo sempre più verso la comprensione della realtà psichica del singolo paziente alla luce degli ormai innegabili elementi chimico biologici che correlano lo stato psichico con manifestazioni ancora oggi così sfuggenti come ad esempio le malattie croniche, le malattie degenerative e le malattie autoimmuni.

 

 

 

 

 

I farmaci servono per debellare le malattie o le malattie servono per vendere farmaci?

 

Carlo de Michele

29 maggio 2010

 

Il 9 Giugno 2006 l’EMEA (l’ente Europeo per l’approvazione dei farmaci) ha consentito l’uso del Prozac nei bambini a partire dall’età di 8 anni affetti da sindrome depressiva, anche se con l’obbligo di iserire un “warning” nei confronti del possibile incremento delle tendenze suicidali ed un invito ad iniziare il trattamento farmacologico solo dopo il fallimento del trattamento psicologico articolato in 4-6 sedute (!).

Tale decisione arriva circa due anni dopo quella della FDA (l’analogo ente americano) che ne ha sollecitato l’uso nei bambini al di sopra dei 6 anni.

Alla fine di Agosto il New Scientist ed il Washington Post hanno pubblicato un articolo attraverso il quale hanno rivelato che il 60% degli scienziati a cui dobbiamo la stesura del DSMIV, ovvero il manuale di riferimento della psichiatria internazionale, ricevono a vari titoli, finanziamenti dalle industrie produttrici di psicofarmaci. Tale percentuale sale poi al 100% se ci si riferisce al gruppo che ha classificato i disturbi che devono essere presi in considerazione per la diagnosi di schizofrenia.

All’inizio di Settembre è uscito per i tipi de Il Saggiatore il libro “Farma&co”di Marcia Angell medico internista, già direttrice del New England Journal of Medicine, il più autorevole tra i giornali scintifici medici, attualmente docente alla Harvard Medical School, che denuncia con dovizia di inconfutabili documentazioni, le gravissime influenze politico-economiche che interferiscono pesantemente con le decisioni della FDA nella valutazione e nelle indicazioni dei farmaci.

 

Al di la delle valutazioni etiche o legali, da queste denuncie emergono alcuni problemi di fondo che è doveroso evidenziare che:

la pura legge di mercato applicata ai problemi della salute può dare risultati perversi.

 

La malattia può essere considerata come un momento di crisi in cui un individuo si pone fuori dal contesto sociale e produttivo manifestando un bisogno primario. Dato il valore che le culture attribuiscono al singolo individuo pressochè tutte le società civili si assumono il carico solidale di garantire a tutti il mantenimento dello stato di salute. Dunque un elemento terzo si frappone tra chi manifesta un bisogno e chi è in grado di provvedere al suo soddisfacimento. Se si decide di regolare i rapporti tra gli interessati secondo le regole di mercato si realizzano gravi incongruenze. Mentre lo stato, che gestisce il danaro pubblico, dovrebbe muoversi secondo principi di solidarietà gestendo le risorse nel modo più oculato possibile, il fornitore di servizi Il mercato infatti non ha come fine intrinseco il benessere della persona ma semplicemente il profitto. In funzione di ciò l’industria farmaceutica non ha alcun interesse a finanziare ricerche allo scopo di incrementare la conoscenza ma è ovvio che sia interessata a ricerche che abbiano come oggetto la realizzazione di nuovi farmaci (o di nuove presentazioni dello stesso farmaco).

Da ciò si giunge al paradosso che nuove malattie sono codificate in funzione di nuove molecole lanciate sul mercato. Come può avvenire tutto ciò? Molto semplicemente: basta indire una “consensus conference” in cui autorevoli scienziati convengono che un disturbo rappresenta una entità nosologica da curare con un farmaco, oppure che un allontanamento dalla norma di un valore non può essere considerato una variabile, ma il segno premonitore di una malattia da prevenire con l’uso cronico di un farmaco. (vedi farmaci anticolesterolo, anti osteoporosi ecc)

 

 

 

I DUE “INTERRUTTORI” DELLA VITA

 

Carlo de Michele

8 Dicembre 2007

 

Nei primi giorni di Dicembre ha trovato ampio spazio sulla stampa quotidiana la notizia che gli esperti di Medicina Perinatale stanno si sono riuniti per formulare le Linee Guida di comportamento nei riguardi dei nati prematuri. Questo documento si basa sulle esperienze del Prof. DONZELLI, neonatologo dell’Ospedale Meyer di Firenze e coautore della “Carta di Firenze” 2004, primo “tentativo di scrivere linee guida sull’accanimento terapeutico sui prematuri”. In accordo con quanto è ormai prassi in molti paesi del nord europa in cui non si pratica mai rianimazione prima del compimento della 23° settimana, il Prof. Donzelli afferma che “La zona del buio è la ventiduesima settimana, dalla 23 alla 24 è una zona grigia, dopo la 24ma si rianima”. Anche Claudio Giorlandino, presidente della Società italiana di diagnosi prenatale e medicina materno fetale afferma che    “la qualità della vita nei prematuri è bassa. I danni cerebrali da prematurità, come le emorragie cerebrali, sono frequenti con conseguenti i danni neurologici” e quindi nel giudizio terapeutico non bisogna basarsi esclusivamente sulle possibilità tecnologiche ma sulla qualità della vita che dagli atti terapeutici consegue.

Ovviamente l’articolo pubblicato dal Corriere della Sera ha prodotto una serie di risposte polemiche da parte di religiosi e moralisti, quali la Senatrice BINETTI, Savino PEZZOTTA, Mons Esilio TONINI.

 

Stabilire un limite per l’intervento di rianimazione del neonato significa che possibile individuare con certezza in quale momento della gestazione il prodotto del concepimento acquista una capacità di vita autonoma. Ciò costituirebbe un supporto difficilmente confutabile a vantaggio sia della terapia intensiva dei feti prematuri sia della opinabilità della legge 194 che pone un limite generico all’aborto terapeutico con   la dizione “possibilità di vita autonoma del feto”.

 

Oggi infatti sembra possibile stabilire questo limite non basandosi solo sull’osservazione clinica ma anche in funzione di recentissime scoperte nel campo della embriologia.

 

Nel Dicembre 2005 è stato pubblicato un lavoro scientifico in cui Inoki e AA: hanno dimostrato che esiste un preciso momento in cui il prodotto del concepimento acquista una capacità di vita autonoma. Esso è esattamente intorno alla 24° settimana allorché arriva a completamento una via nervosa che ci era ancora sconosciuta. Questa mette in contatto diretto   un nucleo cerebrale detto “Nucleo soprachiasmatico” con la parte corticale della ghiandola surrenale.

Il Nucleo soprachiasmatico, alla nascita, viene   stimolato dai recettori della retina, l’impulso nervoso viene condotto direttamente alla corteccia surrenale che viene attivata a rilasciare nel sangue i suoi prodotti.

Questo fenomeno, comune a tutti i mammiferi, può essere considerato come un vero e proprio “interruttore della vita” poiché da esso dipende la partenza del tempo umano, cioè la sincronizzazione degli orologi interni come quello del ritmo sonno veglia, i ritmi digestivi, l’attività ritmica delle ghiandole interne, il ritmo respiratorio.

Dunque, prima della realizzazione di questo circuito, attivatore della vita animale, qualsiasi rianimazione è destinata al fallimento.

Ma se stabilire l’inizio della possibilità di vita “animale” è sufficiente ai neonatologi non è di grande aiuto a chi deve interessarsi di interruzione di gravidanza. Chi si oppone a qualsiasi forma di aborto si appella al principio del Rispetto della vita, ma poiché anche il migliore dei cristiani non disdegna di interrompere molte vite biologiche (vegetali ed animali) in funzione dei suoi bisogni alimentari sarà necessario cercare di stabilire quando la vita animale si trasforma in VITA UMANA.

Ancora una volta è proprio seguendo le stimolazioni retiniche da parte della luce che possiamo avere una risposta.

Alla nascita come abbiamo visto gli stimoli luminosi arrivano al nucleo soprachiasmatico; da qui prendono due strade:una porta, come abbiamo visto, sino alla corteccia surrenale, l’altra alla parte posteriore del cervello dove, a causa della immaturità della corteccia cerebrale non possono essere tradotti in immagini precise. L’impulso luminoso si diffonde a tutta la corteccia cerebrale in modo aspecifico determinando un momentaneo blakout. Il bambino apre gli occhi alla luce con qualche attimo di ritardo: sembra quasi dormire di un sonno che può ormai solo sognare ciò che ha appena lasciato. Sono le manipolazioni della levatrice che lo porteranno al suo nuovo mondo. Ma la cosa più importante è proprio quel momento di non presenza che gli permette di cominciare una attività di tipo immaginativo, elemento discriminante con qualsiasi altro animale, che si costituisce come base della capacità umana di pensare.

Dunque abbiamo gli elementi per affermare che la vita animale non può iniziare prima della 24° settimana di gestazione, e che la vita animale diventa umana alla nascita in funzione del modo tipicamente umano di reagire alla luce