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RIFLESSIONI SULLE MEDICINE ALTERNATIVE

 

Dr. Carlo de Michele

6 gennaio 2015

 

L’ampia diffusione delle “Medicine non convenzionali” è il segno di una diffusa e crescente insoddisfazione del pubblico nei confronti della “Medicina scientifica” (più propriamente definita “Medicina Basata sull’Evidenza” -EBM-), anche se, di fronte ad eventi di particolare gravità, ben pochi accettano di rinunciare   ad un ricovero ospedaliero con tanto di terapie allopatiche in nome di una ortodossia alternativa.

L’ “altra medicina” sembra quindi riferirsi preferibilmente alla gestione dei disturbi di difficile definizione o al contenimento delle manifestazioni di cronicità che, pur se non minacciano la vita, hanno la capacità di renderla penosa.

Ed è proprio in questi ambiti che il paziente non trova facilmente dalla Medicina Basata sull’Evidenza le risposte che desidera avere: egli percepisce il dolore della “sua” malattia, sente di soffrire globalmente in quanto persona e non in quanto possessore di un organo malato e non ritiene adeguato essere considerato, quando va bene, “un caso di…” frutto dell’applicazione di un protocollo diagnostico.

La medicina tradizionalmente scientifica è figlia dell’applicazione del metodo galileiano, quello cioè che, rigidamente basato sul principio di causa-effetto, ha avuto il grande merito di aver separato il concetto di malattia fisica da quello metafisico-religioso di Male, di aver concepito la terapia per la guarigione e di averla distinta dalle pratiche empiristiche, di aver consentito lo sviluppo delle tecnologie diagnostico-terapeutiche oggi indispensabili, di aver spinto la conoscenza sino alla biologia molecolare ed alla genomica.

Oggi però, questa impostazione del pensiero medico mostra i suoi limiti, da una parte nel non essere sufficientemente duttile per affrontare una ridefinizione delle conoscenze medico-biologiche sulla base della teoria della complessità, dall’altra nell’essersi asservita eccessivamente alle leggi di mercato.

In tal modo la Medicina Scientifica finisce per entrare in conflitto proprio con quegli sparuti gruppi di liberi ricercatori che, considerando il corpo umano come la massima espressione della “complessità” (cioè di un sistema il cui senso è qualcosa in più della somma dei suoi componenti), esprimono la punta avanzata della ricerca bio-medica mentre lascia spazio a chi, magari sulla base di intuizioni parziali, propone metodiche terapeutiche intrise di elementi emotivo-filosofico-empirici.

Se un individuo è tale perché esprime la sua capacità di vivere in modo assolutamente singolare pur se i suoi organi e la loro organizzazione complessiva sono pressoché identici in ogni elemento della stessa specie, ne consegue che la malattia non può essere definita in modo completo da una serie di dati quantitativi che indicano lo stato morfo-funzionale dei suoi apparati. E’ necessario capire in che modo un certo organo alterato si relazioni a tutto il resto del corpo, in che modo il “sistema” stia rispondendo a tale evento, in che modo questo processo rappresenti una riduzione di capacità vitale per l’organismo e sofferenza per l’individuo.

Dunque, secondo questa nuova visione, è importare prestare attenzione anche ai sistemi di comunicazione attraverso cui le parti del corpo scambiano informazioni sullo stato funzionale per mantenere un valido equilibrio interno, nel rapporto continuo con l’ambiente esterno.

L’uomo, come tutti i “sistemi aperti”, è immerso in un continuo flusso energetico, in stretta relazione con l’ambiente, poiché deve assorbire energia per il mantenimento del proprio equilibrio e rilasciare i prodotti di scarto in un processo ecologico che coinvolge in una stretta rete tutti gli esseri viventi, poiché gli scarti di una specie rappresentano la fonte energetica di un’altra, secondo un ciclo continuo che non può essere interrotto in nessun punto senza che tutta la rete ne soffra gravemente.

Considerare che questi processi si svolgano secondo i principi della complessità significa capire che uno stimolo (qualsiasi elemento che entri in un organismo, come energia, sostanza chimica, germi, traumi ecc.) può determinare nei diversi individui risposte diverse di intensità non necessariamente proporzionali all’intensità dello stimolo e che risposte simili possono essere determinate (in individui diversi come nello stesso individuo) da cause diverse.

 

E’ ovvio che applicando solo la diagnostica convenzionale non è possibile affrontare tali problemi, e che è necessario riuscire a capire in che modo in ogni singolo individuo una certa causa sia arrivata a produrre un determinato sintomo.

Questa impostazione sta conquistando spazi presso taluni immunologi e neurologi che stanno affrontando i problemi della terapia attraverso la immuno o la neuro modulazione con notevoli successi in campo sia teorico che pratico. Sta diventando così possibile superare il concetto tanto caro all’industria farmaceutica che ogni disturbo sia legato ad una precisa e specifica causa e che quindi possa essere curato con una nuova e specifica molecola.

Ovviamente a questi risultati si è arrivati attraverso l’applicazione dei concetti di complessità alle più recenti acquisizione in campo di neuroscienze e di immuno-endocrinologia.

Sembra quindi di poter affermare che oggi comincia ad essere possibile superare l’apparente antinomia tra certezza scientifica e indeterminatezza soggettiva; possiamo forse pensare che sia finita la condanna a scegliere solo tra il riduzionismo scientista, che di fatto annulla la realtà individuale, e le interpretazioni filosofico-religiose che, anche se più prossime al sentire individuale, sono prive di condivisibilità universale.

 

Credo però che, quando si assumono responsabilità nei confronti della vita di altri essere umani, sia indispensabile esprimere comportamenti che siano dotati di tutti i requisiti necessari a renderli affidabili.

 

Ciò significa che, nel caso di comportamenti medici, è necessario che siano rispettate alcune irrinunciabili regole di coerenza: che ogni atto derivi dalla conoscenza più profonda possibile della fisiopatologia e quindi sia coerente con una specifica teoria; che l’effetto ottenuto sia effettivamente prodotto da ciò che è dichiarato agente terapeutico e non da qualsiasi altro fattore concomitante o latente; che esso si manifesti attraverso un meccanismo di azione (secondo regole lineari o complesse che siano) comunque dimostrabile; che gli effetti constatati corrispondano agli effetti attesi e che non si sovrappongano ai processi di guarigione spontanea o all’effetto placebo.

E’ necessario che tutto sia accettabile non per fede, per tradizione o per autorità della fonte ma per la possibilità di verificare o falsificare (criticare) il processo di pensiero che lo ha generato in funzione di un metodo dichiarato.

Questa esigenza di coerenza non significa l’automatica esclusione di qualsiasi pratica terapeutica basata sull’empirismo o su antiche tradizioni: significa che, al lume delle conoscenze ora disponibili, è necessario sottoporre qualsiasi sapere al vaglio di attente ricerche, verifiche, attraverso metodiche capaci di valutare anche aspetti qualitativi e non solo quantitativi (statistici) per ciò che attiene alla percezione di salute.

 

Al di fuori di questi requisiti minimi di credibilità non fideistica, non possiamo affermare di trovarci di fronte a comportamenti medici, ma a rapporti interpersonali, talvolta interpretabili come particolari forme di alleanza terapeutico-consolatoria, che, pur se dotati di effetti pratici a volte considerati positivamente, hanno il grave difetto di nascondere dinamiche psicologiche il cui valore non si esaurisce nella eventuale scomparsa di un certo sintomo.

Talvolta le pratiche mediche non convenzionali, più o meno consapevolmente, scivolano nel campo della pura empatia. Attraverso un malinteso olismo medico e paziente convergono sull’idea che un approccio medico più umanamente disponibile e una diagnosi posta non attraverso l’impersonale approssimazione statistica degli strumenti tecnologici, ma secondo pratiche più o meno ritualizzate, porti automaticamente alla comprensione delle sofferenze più personali. La terapia poi, proposta attraverso interventi dolci, spesso estremamente ritualizzati, dovrebbe poi portare non solo alla scomparsa del sintomo, ma anche alla riconquista della serenità e percezione di benessere.

Sono d’accordo sul fatto che milioni di persone trovino tutto ciò assolutamente positivo e che considerino i limiti di questi metodi certamente preferibili ai possibili danni derivanti da errori diagnostci o alla enorme quantità di effetti indesiderati da farmaci.

Tuttavia credo di dover stigmatizzare i gravi rischi che si corrono sia quando il contenimento di un sintomo può pericolosamente ritardare un intervento decisivo su una patologia fisica grave, sia quando una somatizzazione può essere l’unico segno che un attento psichiatra potrebbe valutare per cogliere la latenza di una psicopatologia anche grave, assolutamente sconosciuta (o annullata) dal paziente, dai famigliari o anche dal medico curante.

In conclusione, per arrivare alla tanto agognata “medicina dal volto umano” credo che sia necessario un grande sforzo da parte di chi voglia esercitare la professione medica: è necessario possedere una solida formazione scientifica, poiché sono innegabili i successi della conoscenza basata sui principi lineari della fisica newtoniana senza però negare il cambiamento di paradigma imposto dal progredire delle conoscenze proprio nel campo della fisica. E’ però altresì necessario sviluppare anche il lato così detto empatico portandolo sempre più verso la comprensione della realtà psichica del singolo paziente alla luce degli ormai innegabili elementi chimico biologici che correlano lo stato psichico con manifestazioni ancora oggi così sfuggenti come ad esempio le malattie croniche, le malattie degenerative e le malattie autoimmuni.