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L’IMPORTANZA DELLE IMMAGINI

Carlo de Michele

27 novembre 2011

 

Sogni, miti, favole, religioni, ricordi, arte, inganni, verità.

Ricordi e poi cultura.

Comunità e politica.

Un filo rosso lega tutto: La capacità di creare immagini; la capacità di crearne dentro di sé e di suscitarne negli altri.

La capacità di manipolare le immagini è sempre stata la via maestra della conquista del potere.

Perché?

Perché la possibilità di fare un’immagine è la base del pensiero umano.

Poi viene la capacità di inventare parole per descrivere e comunicare le immagini create.

Il linguaggio nasce in funzione dell’ esigenza di comunicare ad altri le proprie immagini interne.

Per comunicare informazioni sull’ambiente o regole di comportamento o strumenti di sopravvivenza sarebbe bastato, come ancora è sufficiente per i Primati, il linguaggio mimico. Comunicare ciò che è uguale per tutti richiede solo pochi, semplici  gesti simbolici.

Ma una propria immagine interiore non può essere comunicata a gesti. E’ nota solo a noi e contiene emozioni provate unicamente dal suo creatore, e per comunicarla è stato necessario evocare complicati gorgheggi evocativi, che riecheggiano il “canto” dei neonati… o delle Sirene. Dal canto al linguaggio verbale. La specializzazione della modulazione vocale ci permette di comunicare contenuti mentali assolutamente personali ed unici.

Non credo proprio che il linguaggio sia nato per indicare oggetti o necessità. Troppo pigri gli uomini: avremmo continuato semplicemente ad indicarli nei secoli dei secoli…amen.

Invece la spinta interna ad esprimere l’onda di emozioni che nasce dal centro del cuore e sembra spingere la pelle sino ad esplodere in conseguenza dell’assurdità senza parole che è lo sfregamento di mucose amanti, fa nascere nella gola l’urlo che poi diventa canto, che poi diviene poesia, di parole più ricche di senso che di significato, parole prossime alla musica ma vicine alle arti figurative, che toccano la pelle come a dare forma e a levigare un marmo, che emergono quando l’onda di passione si è fatta turbinio di colore, definizione di forme mai viste, di immagini di sogno, libertà di trasformare la forma obbligata degli oggetti esistenti, piegare la linea fino a definire non tanto i contorni dell’esistente quanto a disegnare la forma infinitamente cangiante dei nostri pensieri.

Immagini create, né viste né ricordate, nate dentro di sé per l’attività della mente, che si mescolano con le immagini registrate e ricordate, nate dalla semplice reazione degli organi di senso alle variazioni energetiche indotte dall’impatto con gli oggetti esterni.

Immagini diverse quelle create e quelle viste e ricordate, ma vere entrambe.

Peraltro forse possiamo azzardare l’idea che immagini oggettive di realtà esterne che impattano i nostri recettori sensoriali e che vengano registrate ed archiviate in modo rigorosamente lineare proprio non esistono.

Non esiste stimolo che induca una reazione senza contemporaneamente indurre una risposta dei nostri sistemi interni di vigilanza e difesa.

Un’immagine ricordata è in realtà un’immagine ricostruita funzione di uno stimolo che colpisce la nostra reattività irrazionale.

E’ la nostra fisiologia.

I nostri recettori non stanno lì semplicemente  per registrare ed archiviare. I nostri recettori sensoriali, così come è dalla nascita della prima cellula, servono per cogliere le continue modificazioni dell’ambiente esterno, comunicarle alle strutture interne e attivare i meccanismi automatici interni perché modifichino i livelli e le tipologie di funzionamento in funzioni delle modificazioni ambientali così da mantenere l’equilibrio interno. La conoscenza viene dopo, sia come puro apprendimento motorio automatico, sia come organizzazione dei pensieri relativi agli eventi.

Pensieri….ma come si passa dalle reazioni recettoriali alla apparente immaterialità d’un pensiero? Che relazione c’è tra il ricordo d’un fatto ed il pensiero in base al quale possiamo raccontarlo?

Il ricordo può essere inconsapevole. Ogni nostro singolo neurone può memorizzare uno stimolo degno d’essere ricordato: se uno stimolo ha certe caratteristiche un neurone modifica la propria struttura anatomica creando una nuova sinapsi. E’ così che quell’evento resta impresso nella nostra struttura. E’ questo il meccanismo che ognuno di noi ha usato per imparare a camminare o andare in bicicletta, o che ogni atleta usa, anche da adulto, quando impara ed automatizza un nuovo gesto tecnico.

Ma il ricordo, anche inconsapevole, non è mai il ricordo dell’oggetto, ma il ricordo della modificazione del nostro corpo che quell’oggetto ha determinato in noi. Il ricordo è sempre ricordo di noi stessi in quella situazione. E questo modo di ricordare è comune a tutti gli esseri viventi.

Quando è comparso ciò che noi chiamiamo ricordo cosciente?

Quando, in concomitanza con lo sviluppo della massa cerebrale, l’animale implume detto homo ha perso il rassicurante determinismo relativo alla nicchia biologica di appartenenza ( ricordiamo che ogni animale nasce perfettamente adeguato all’ambiente in cui dovrà vivere, come il leone nella savana o l’orso bianco al polo, mentre l’uomo alla nascita non è adeguato a vivere in nessun posto, ma ha la potenzialità di vivere ovunque).

Ciò vuol dire che per poter vivere questo animale deve in parte modificare sé stesso  adeguandosi all’ambiente e, fondamentalmente, modificare l’ambiente (purtroppo e troppo spesso sino distruggerlo) per renderlo adeguato alle sue esigenze.

Di fronte al problema di “inventare” un nuovo animale che possedesse già alla nascita tutte le strutture e le funzioni istintive adeguate queste nuove esigenze, la natura ha scelto una modalità molto più economica:   invece di creare un animale con qualche milione di geni e con un sistema nervoso centrale enorme, portando alle estreme conseguenze ciò che si era dimostrato valido sino ai nostri più vicini antenati, cioè le scimmie antropomorfe, ha selezionato un animale privo di istinti, ma con una corteccia cerebrale sufficientemente grande rispetto alla massa corporea, capace di sostituire l’automaticità delle risposte inconsapevoli determinate da circuiti neuromotori predisposti, con la complessità di risposte create all’istante da una attività corticale capace di fare nessi e inventare soluzioni.

A questa novità anatomica è seguito lo sviluppo di nuove importantissime funzioni: la consapevolezza di sé e la nascita del pensiero.

Un pensiero particolare, che doveva tenere presente contemporaneamente il dato esterno, cioè la corrispondenza tra l’attività dei propri recettori e l’oggetto che li aveva stimolati, e la reazione globale dell’organismo, cioè la reazione neurovegetativa che potremmo anche chiamare proto-emozione.

Il tutto, sempre in ossequio al principio della massima economia, viene sintetizzato in una immagine mentale che mantenga una relazione con l’oggetto ma che lo modifica in funzione della reazione emotiva che esso ci ha determinato. Per fare un esempio se due persone diverse vedono lo stesso leone allo zoo quella che prova paura verosimilmente poi ricorderà un leone a fauci spalancate nell’atto di aggredire mentre quella che non ha avuto paura ricorderà un leone sdraiato e sonnacchioso somigliante ad un grande gatto in siesta. Il racconto poi che ne faranno sarà uno ricco di particolari atti a suscitare nell’uditore la stessa emozione di paura, con ulteriore modificazione del dato di realtà, mentre l’altro ci suggerirà un’immagine oleografica da valle dell’Eden.

E nessuno dei due mente!

Dunque la nostra mente ha come compito principale non quello di costruire archivi fotografici come documento di verità oggettive  (lasciamo questo compito a filosofi razionalisti) ma quello di costruire una conoscenza del mondo adeguata al nostro particolare modo di essere: noi dobbiamo conoscere il mondo secondo la nostra particolare modalità e possibilità di viverlo. Ognuno di noi ha il faticoso compito di andare nel mondo per riceverne impressioni, vivere le proprie reazioni e sintetizzare questi eventi in una immagine creata che costituirà l’elemento basilare della nostra conoscenza e l’imperativo dei nostri comportamenti. Ciò che noi comunichiamo attraverso i linguaggio verbale è proprio la singolarità delle nostre conoscenze cariche di senso soggettivo. La somma delle immagini create costituisce quell’elemento emergente che è la consapevolezza storica del sé.

Vorrei notare che le nostre biografie sono in realtà “favole” con cronologie artefatte dalla scelta di eventi significativi, enfatizzati, ridimensionati o camuffati o semplicemente ricordati in modo da comunicare la percezione del senso che noi attribuiamo alle nostre vite. Tanto che abbiamo dovuto inventare marcatori di tempo e spazio per dare una organizzazione “razionale” a quanto invece vagherebbe nell’indefinitezza della atemporalità del nostro spazio interiore.

E comunicare attraverso storie inventate è comunemente accettato perché il modo di comunicare è in realtà sempre soggettivo, fondamentalmente determinato del reciproco movimento dall’invisibile, del non oggettivo, dell’irrazionale. Anche se ciò che non si vede ma che percepiamo perché diverso o addirittura seducente, comunque destabilizzante, può essere immaginato pericoloso e quindi rinchiuso dietro le sbarre della razionalità.

Succede allora che le comunità si associano intorno ad una favola fondante e data come verità identitaria, un racconto di emozioni condivise, la costruzione di radici che rendano meno sconosciuto   l’uno all’altro. Sicurezza e identificazione nei valori comuni invece dell’incertezza  dell’identità e del rischio della seduzione…Sopravvivenza e riproduzione invece di amore. Rinuncia alla creatività della propria fantasia per la sicurezza di condividere una favola buona per tutti. Credere invece di creare pensiero e conoscenza.

E’ evidente che il massimo compromesso che l’uomo senza identità può fare per non diventare completamente pazzo è quello di inventare religioni. La religione è il supermercato della fantasia. Sogni, motivazione e senso come produzioni industriali, vendibili a basso prezzo (si fa per dire) e usabili da tutti. Perché faticare per creare i propri sogni, scoprire i propri desideri, la propria visione del mondo, confrontarli con altri diversi da sé per verificarne il valore umano, quando è sufficiente fare contratti in cui si dichiara una volta per tutte quali saranno affetti, pensieri e comportamenti della propria vita?

D’altro canto per la nostra sopravvivenza materiale è necessaria la conoscenza oggettiva del mondo materiale, per governarlo e trarne tutto ciò che soddisfa i nostri bisogni. Per tanto  abbiamo inventato una modalità di pensiero che riteniamo oggettivo se ubbidisce e si struttura secondo regole condivise, e se mantiene una rigida corrispondenza con i fatti materiali; un pensiero che non subisca le modifiche che inevitabilmente le nostre reazioni individuali (emozioni) determinano. Questa modalità, detta scientifica, di creare pensiero sembra obbligatoria e quindi, almeno dal 1600 ad oggi, se non vogliamo dire dalla nascita del pensiero filosofico ad oggi, cultura e pedagogia sono state piegate alla necessità di far apprendere verità oggettive, pulite da deformazioni emotive. Verità, dati crudi, che non possono essere trasformati in immagini. Scienziati computerizzati che non colgono il valore umano delle loro verità. Verità razionale che può uccidere la verità irrazionale del pensiero creativo; verità che, private della struttura intima  costituita dal senso umano dei nostri pensieri, c possono anche essere distorte sino alla distruzione, dell’uomo e dell’ambiente in nome di concentrati di follia come il profitto.

Ma evidentemente, senza un minimo di fantasia, sia pure corrotta e mercificata, non è possibile vivere, e allora è facile vedere fior di scienziati genuflessi nei templi, tecnici governativi rigorosamente cattolici. Le favole delle religioni che resistono immutate da migliaia d’anni incuranti dell’appalesarsi sempre più evidente dell’inganno e della “razionalità” che le pervade.

Perché sono le uniche narrazioni in cui abbiamo alienato la creatività, il fantastico, l’irrazionale, il miracoloso.

Il miracolo, la guarigione miracolosa, non deve  essere pensato come capacità del pensiero di concentrarsi fino a cogliere l’errore della esclusione dell’irrazionale e che invece può riprendere il corretto rapporto con le funzioni del corpo, ma deve essere pensato come un evento trascendente.  Chi si appropria della mediazione col trascendente si identifica col potere.

Il pensiero si nutre di immagini, che dovrebbero essere sempre nuovamente create. La fatica di vivere, che è il prezzo della liberta e dell’umanità.