Incontri sul tema: Sport e Doping

Incontri sul tema: Sport e Doping

Incontro sul tema:

 

SPORT E DOPING

 

Dr. Carlo de Michele

24 Novembre 2009

 

 

Lo sport organizzato, così come lo concepiamo ai nostri giorni nasce verosimilmente in Grecia intorno al 1700 a.c. quando Pelope, ucciso dal padre Tantalo e resuscitato da Zeus, organizza una grande festa di ringraziamento basata su competizioni di lotta (kratos), di pugilato e di corse. Pelope poi conquistò le isole greche, che presero il nome di Peloponneso e diede origine alla stirpe degli Atridi.      Altre leggende attribuiscono addirittura ad Ercole, in occasione della sua settima fatica, la pulizia delle stalle di Augia, l’istituzione delle prime “Olimpie”.

(Augia , figlio del Sole, re dell’Elide, possedeva numerosi capi di bestiame, tra cui 12 tori bianche sacri ad Elio, tenuti in stalle che non venivano pulite da anni. La settima fatica   consisteva nella pulizia di questa stalle da solo e in un solo giorno: Ercole riuscì nell’impresa deviando il corso dei fiumi Alfeo e Peneo attraverso le stalle)

Queste feste celebrate per molti anni, furono poi dimenticate per essere ripristinate da Ifito, presumibilmente nel 776, per celebrare con giochi la riconciliazione con le popolazioni dell’Elide conquistate.

La sede dei giochi fu una cittadina presso cui sorse Olimpia, che Ifito consacrò come territorio neutrale, ed in cui furono celebrati come momento di scambio culturale, politico, economico ed assunsero un’importanza enorme. La partecipazione del pubblico divenne sempre maggiore ed appassionata, quindi il semplice partecipare ad una gara olimpica rappresentava motivo di lustro e vincere comportava gloria e prestigio sociale. Ben presto si selezionò una categoria di veri e propri atleti professionisti con tanto di allenatori e sponsor.

Le manifestazioni sportive erano accompagnate da manifestazioni culturali e religiose ed assunsero un tale sfarzo che la loro organizzazione comportava un tale impegno economico da non poter essere effettuate ogni anno. Nonostante l’aspetto mondano sempre più preminente mantennero sempre un carattere di grande sacralità   tanto che   non furono mai interrotte né dalla continua rivalità tra Atene e Sparta né da nessuna guerra (mentre nell’era moderna furono interrotte nel ’16, nel ’40 e nel ’44), finché l’imperatore Teodosio, fervente cristiano, impegnato nella difesa dell’impero romano contro i barbari, non li soppresse, ritenendoli riti pagani (379 Editto della fede). Nel 391 dopo Cristo, gli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio emanarono un editto che suonò come una campana a morto per i giochi olimpici. A nessuno era permesso di fare sacrifici, di edificare templi ed aggirarsi nei pressi dei santuari nella zono riservata ai giochi: il reo sarebbe stato condannato a pagare quindici libbre d’oro. Ad Olimpia pertanto venne chiuso il recinto sacro agli antichi greci: i giochi olimpici furono aboliti per sempre.

Solo nel 1856 il Barone De Coubertin, intellettuale pedagogo francese, li ripristinò dandogli la struttura che noi conosciamo, convinto che lo sport fosse “il miglior rimedio contro i pericoli di corruzione, sedentarismo, depravazione, pigrizia mentale e fisica” di una gioventù disorientata dal cambiamento sociale e di valori legato all’affermarsi della società industriale.

L’intento di De Coubertin era quello di creare una sorta di camera di decompressione, rifacendosi all’ antica sacralità dei giochi olimpici, in cui i principi etici come la competizione   disinteressata, la lealtà, la ricerca della bellezza e della verità, costituissero la salvaguardia dei valori per una società che andava perdendoli sotto la spinta delle nuove forze economiche.

Intento fallito ai tempi di Ifito allorché la vittoria olimpica finì ben presto di rappresentare la celebrazione eroica delle origini per divenire strumento di affermazione sociale ed economica, fallito ai tempi attuali in cui lo sport ha ipertrofizzato l’aspetto spettacolare ed è diventato lo strumento attraverso cui alcuni potentati manipolano ingenti capitali e governano la deriva emotivo-culturale di grandi masse popolari.

Oggi come ai tempi delle antiche olimpiadi, i campioni sportivi, lungi dall’incarnare ideali di purezza, rappresentano sempre di più modelli d’ identificazione in valori quali il successo, l’apparire, la ricchezza, l’identità sociale conquistata con la vittoria ad ogni costo, inconsapevolmente trasformandosi in oggetti di consumo nelle mani di mille mediatori privi di scrupoli.

La responsabilità di quanto è sotto gli occhi di tutti non credo che sia da ascrivere allo sport in quanto tale, ma al globale impoverimento della cultura, o meglio dei soggetti che dovrebbero produrre cultura approfondendo la ricerca sulla realtà umana, immaginando e realizzando strutture organizzative sociali che permettano e stimolino lo sviluppo e l’espressione delle qualità di ogni individuo.

In questo contesto lo sport sempre di più si stacca dalla sua definizione originale:

sport è parola inglese che deriva dal francese déport il cui significato letterale è divertimento.

In una logica che ha rovesciato la realtà attribuendo valore solo al risultato ultimo ed alle sue ricadute in termini di profitti il gol di mano di Maradona (Argentina-Inghilterra del mondiale ’86) entra nell’immaginario collettivo come modello di identificazione positivo molto più del gol di tacco di Mancini (derby Roma-Lazio ’03); la competizione non è più il momento in cui il lavoro individuale riceve la sua oggettivazione nel confronto con le capacità altrui, ma è diventato il momento della sofferenza, talvolta a rischio della propria salute, giustificata e resa significante solo dal conseguimento del risultato da cui dipende la sopravvivenza materiale e, cosa ben più grave, la considerazione di sé.

Ritengo che il professionismo nello sport sia una contraddizione in termini ( lo sportivo professionista dovrebbe casomai essere considerato un lavoratore dello spettacolo) e quindi causa prima di degenerazioni difficilmente controllabili.

Uno sportivo professionista è peraltro un lavoratore atipico: ha una fase di vita produttiva molto limitata nel tempo, una possibilità di riuscita occasionale e di durata assolutamente imprevedibile, e molto spesso una percezione di sé estremamente fragile al di fuori del proprio sport; di conseguenza, in un ambiente selvaggiamente competitivo, spinto dal pubblico che non può accettare il fallimento del proprio oggetto di identificazione, è portato a giocarsi il tutto per tutto pur di ottenere il massimo rendimento possibile dalla sua chance.

Di fronte alla necessità di raggiungere una visibilità che talvolta diventa l’unica possibilità di “esistere”, l’unica identità di cui avvalersi nell’affrontare la vita, di fronte alla possibilità di attingere a possibilità economiche impensabili per qualsiasi lavoratore, di fronte alla pressoché assoluta mancanza di discrimini etici o culturali, di fronte alla commercializzazione anche di questi falsi bisogni è ovvio che un giovane ceda all’illusione di realizzare tutto ciò ricorrendo anche all’illusione di aiuti esterni.

Ma esistono precise cause, di difficile comprensione, che giustificano la tendenza a scegliere strategie di sopravvivenza apparentemente semplici pur se colme di rischi ed incoerenze e che riguardano ogni aspetto della nostra vita.

Premesso che vivere è un’arte difficile poiché l’uomo paga la libertà di non essere geneticamente predeterminato come gli animali, con la necessità d’imparare tutto sul suo ambiente e su sé stesso, processo che dura tutta la vita e che deve essere sempre approfondito, bisogna accettare anche il fatto che è necessario inventare con fatica sempre nuovi strumenti, e che questa fatica ha talvolta prezzi alti e dolorosi. E’ difficile comprendere che proprio la resistenza alla fatica e alla sofferenza è l’unico stimolo capace di costringere la natura umana a trovare nuovi livelli di adattamento: questo è vero sia quando ci troviamo di fronte a programmi di allenamento che giocano proprio sulla modulazione della fatica, sia quando la realtà degli incontri interumani ci pone di fronte alla necessità di arrivare alla comprensione di visioni del mondo completamente diverse dalle nostre.

 

L’essere umano può comprendere nuovi aspetti della sua realtà profonda solo in funzione di incontri “perturbanti” con esseri simili ma diversi da sé. E’ proprio una identità umana che resiste all’angoscia della perturbazione che consente l’emergenza della fantasia, cioè della capacità di vedere la realtà da un nuovo punto di vista, della capacità di vedere nuovi nessi, in funzione della quale si aprono nuove strade per il progresso del sapere.

Invece questa cultura ha perso proprio la resistenza: ogni perturbazione, cioè ogni deviazione della linea retta che simbolizza la calma piatta di un ipotetico benessere molto simile all’atarassia, viene considerato disturbo, viene medicalizzato ed affrontato con l’apporto di sostanze chimiche, con l’adatto psicofarmaco.

In America, per esempio, è comune ormai trattare l’irrequietezza d’un bambino (cioè un comportamento che disturba la calma di un adulto indisponibile a cogliere ciò che un bimbo non può esprimere con le parole) con uno psicofarmaco. Ciò significa che un tentativo di un bambino di mantenere comunque un rapporto esprimendo nei modi possibili   i propri stati d’animo viene ridotto a malattia, cioè a degenerazione interna, indipendente da qualsiasi   stimolo affettivo. Una situazione che in realtà tenta di esprimere la carenza di un rapporto, che esprime il bisogno di attenzione e di amore, viene risolto   spingendo il bambino verso una sempre più grande ed incomprensibile solitudine di malattia.

Così le espressioni più delicate della realtà umana non cosciente vengono strappate alla loro naturale relazione con i comportamenti, a cui proprio esse danno senso, per essere oggettivate, medicalizzate, ridotte al rango di alterazione degli “umori”, e trattate con l’assunzione di farmaci che correggono le molecole alterate,carenti o eccessive.

Nel difficile percorso di trovare un modo di vivere sempre più umano la nostra specie ha sviluppato grandi elementi di solidarietà e di cura dei singoli per permettere a tutti di superare momenti di difficoltà sino ad inventare quella perla dell’intelligenza umana che è la Medicina.

Ma neppure la Medicina, come già ho accennato è riuscita a sottrarsi alla tentazione di scambiare la convenienza con la verità, finendo per associare al dolore anche la fatica e la difficoltà.

Così è giunta ad assimilare al concetto di malattia, che è l’unica condizione che giustifica l’assunzione di una sostanza farmacologica, qualsiasi modificazione dell’omeostasi che invece è parte della normale oscillazione degli equilibri interni rispetto agli stimoli ambientali.

Così diventa malattia qualsiasi reazione affettiva intrinseca alla dinamica interpersonale, quindi il benessere non viene ricercato nel confronto e nell’approfondimento della conoscenza della realtà umana non cosciente, ma nello “sballo” o in una pillola che riporti tutto alla calma o che ci dia la capacità di sopportare.

Così è diventato normale e quasi auspicabile chiedere alla medicina non solo la possibilità di vincere dolore e fatica ma anche di realizzare capacità da superuomo.

 

 

Ma l’idea di cercare nell’uso di sostanze quell’apporto energetico esterno capace di far emergere potenzialità nascoste non è certo nuova: si parte dall’uso di sostanze vegetali usate nell’antichità (ma anche oggi presso sette esoteriche) per raggiungere stati di coscienza di prossimità al divino, per giungere al largo uso di droghe da parte degli artisti illusi di poter esprimere la creatività liberando la coscienza dal controllo della ragione.

Nulla di più fallace! Le droghe sono solo sostanze chimiche che interferiscono sul metabolismo di sostanze affini o contrarie normalmente prodotte dal cervello in seguito alla elaborazione di stimoli. Esse possono solo stimolare artificialmente i recettori specifici generando una sorta di pseudo pensiero meccanico apparentemente “artistico” perché sganciato dalle regole della logica, ma in realtà “disumano” in quanto sganciato anche dal rapporto con la realtà.

L’arte, se posso azzardare una definizione, dovrebbe essere invece la capacità di trasfigurare il reale per esprimere l’originalità di un’intuizione, di una immagine inesistente e creata dalla fantasia dell’artista. Immagine che non può essere regalata da un lampo psichedelico, ma che è il frutto di una continua presenza affettiva nella realtà dei rapporti interumani.

Non possiamo stupirci allora se gruppi sempre più ampi, specialmente di giovani, in un momento in cui il vivere sociale è ridotto al riconoscimento di interessi comuni, ed i rapporti personali più intimi rispondono al massimo alla logica della scarica di tensioni, cerchino proprio nelle droghe di strada la via più facile per sfuggire alla delusione ed al dolore di rapporti comunque insoddisfacenti.

E’ il cosiddetto mondo del “disagio”psichico.

E’ il mondo dei giovani che affrontano la vita privi di un’identità, di una valida coscienza di sé, dei giovani cresciuti in famiglie distratte dalla affannosa conquista della collocazione socioeconomica e privati delle giuste risposte affettive indispensabili per non confondere l’odio con l’amore, la serenità con l’indifferenza, la fatica della ricerca col dolore. Per essi il mondo dei rapporti finisce per essere come un documentario, un susseguirsi di immagini piatte prive di senso se non quello comune legato ai significati oggettivi ordinate secondo la loro utilità o valore economico. E se per caso un’emozione comunque passa, viene percepita come un elemento disturbante da controllare e possibilmente da sopprimere.

L’ideale sembra essere una vita basata sull’utile, in cui la ragione mai è alterata dall’irrompere delle passioni, in cui le emozioni possano essere gestite a volontà con una pillola per lo sballo, una per essere superefficienti, una per amare, una per tornare alla calma. La realizzazione di un pensiero finalmente libero dal condizionamento del corpo che sente, patisce, reagisce, libero di pensare l’astratto e il disumano in una purezza divina o nazista.

Sembra troppo difficile accettare che le emozioni sono invece lo specifico dei rapporti umani, l’unica base valida per costruire un pensiero che da esse è stimolato e che può nascere solo nell’ambito di un rapporto affettivo.

Ciò che fa del pensiero un pensiero umano non è la sua conformità a principi etici trascendenti, stabiliti una volta per tutte attraverso una convenzione o una Rivelazione, ma la   corrispondenza tra ciò che il corpo percepisce nelle sue continue reazioni nei confronti dell’ambiente esterno (umano) e ciò che noi facciamo quando un evento è trascorso e non ci resta che una strana impressione interna che pian piano si articola in pensiero.

Mi sembra evidente che non esiste e non potrà mai esistere alcuna sostanza chimica che possa svolgere questo lavoro in vece nostra: questa alchimia deve necessariamente nascere dentro di noi in seguito ai segni che solo un altro affetto umano può lasciarci se noi non lo impediamo.

Sembra troppo difficile…. e le difficoltà siamo abituati ad aggirarle per garantirci la sopravvivenza. L’uomo, invece, come parte integrante della natura, è proprio strutturato per risolvere le difficoltà ed aumentare continuamente le proprie capacità; e le capacità aumentano solo se emerge una difficoltà da superare. La natura, infatti, seguendo il principio della massima efficienza con la minima spesa sviluppa solo gli elementi indispensabili per la soluzione dei problemi. L’uomo normale infatti non è un body builder, ma semplicemente un individuo perfettamente adattati che possiede i muscoli necessari a vivere nel suo ambiente. Un nuovo muscolo si sviluppa solo se compare un a nuova situazione per cui l’assetto precedente non è più sufficiente, come accade nel corso degli allenamenti in cui vengono create artificialmente delle condizioni stressanti che inducono una reazione di superadattamento.

Dunque la possibilità di sviluppare nuove capacità può essere solo funzione degli stimoli adattativi proporzionati alle potenzialità genetiche e del pool energetico disponibile. Ciò significa che il raggiungimento di un obbiettivo dipende solo da un allenamento corretto che distribuisca correttamente carichi e recuperi e da una alimentazione equilibrata ed in grado di fornire l’apporto energetico necessario.

Ed al di là di questa affermazione che può sembrare molto semplice non esiste altro che sia vero ed a misura d’uomo.

Gli enormi progressi delle conoscenze in campo fisiologico e biochimico possono indurre a credere che esistano davvero sostanze in grado di stimolare specificamente questo o quel sistema metabolico, ma questa è una pia illusione . Posso affermare in modo categorico che non esiste nessuna sostanza farmacologica che possa essere assunta senza subire i danni di effetti collaterali negativi che possono manifestarsi anche a distanza di molto tempo.

Dobbiamo poi tenere presente che, per quanto riguarda le sostanze dopanti, non esistono studi specifici sugli effetti secondari, al contrario di ciò che accade normalmente per qualsiasi farmaco per uso medico, e che i dosaggi usati sono molto superiori a quelli delle stesse sostanze usate a scopo terapeutico. Dunque i loro effetti sono sempre presunti e mai il risultato di studi controllati su un adeguato numero di soggetti e per tempi sufficientemente lunghi.

Proporre il doping ideale è un inganno che purtroppo vede responsabilità e coinvolgimento di personaggi come ricercatori, medici, allenatori, personaggi ambigui, che, travolti dal business vengono meno ai basilari principi etici delle loro funzioni istituzionali.

 

In questa catena infernale gli atleti, novelli gladiatori, sono forse l’anello debole. Talvolta del tutto inconsapevoli, talvolta ricattati da un mondo che non offre possibilità, talvolta convinti di esprimere la propria libertà accettando di autodistruggersi in cambio di un effimero momento di gloria e di ricchezza. Rischiare la morte in cambio dell’illusione di essere.

Che questo mortale inganno pervada anche le strutture che dovrebbero essere preposte alla tutela e allo sviluppo del bene comune lo si evince dalla semplice osservazione di ciò che accade sotto i nostri occhi: dal doping di stato dei paesi dell’est sino agli anni 80, alla libertà dell’uso di qualsiasi mezzo atto ad aumentare il livello spettacolare dello sport professionistico americano, alla difficoltà delle varie federazioni nazionali ed internazionali nel trovare accordi comuni per il controllo, all’ostracismo cui anche in Italia sono stati fatti segno personaggi dello sport che da anni denunciavano fatti gravissimi, alle morti sospette di troppi atleti in diverse discipline…

 

E’ anche il caso di prestare attenzione al doping subdolo e apparentemente immotivato diffuso nelle palestre e negli ambienti amatoriali, forse più pericoloso, perché gestito da personaggi improbabili e   privi anche di quel minimo di conoscenze che possono circolare negli ambienti sportivi professionistici.

L’uso di improbabili integratori in questi casi è puramente dettato dalla volontà di “apparire”, di possedere una figura fisica come sostituto di una immagine interna di sé inesistente.

Giganti di argilla ricchi solo di una inutile forza fisica e di una insussistente forza interiore.

Come si vede la cultura diffusa delle nostre società nasconde un grave malessere i cui confini con la vera e propria malattia psichica sono spesso difficilmente definibili.

Lottare contro questa falsa cultura è davvero un’impresa improba.

La politica è diventata oggi molto pragmatica: per non rischiare di cadere nell’ideologia ha abbandonato il dovere di cercare e proporre nuova teoria, di porsi come elemento di promozione culturale, decidendo di dedicarsi solo all’amministrazione, che talvolta non è nemmeno“buona amministrazione”. Identificando il benessere comune con la crescita del PIL finisce per lasciare che il vuoto etico che si accompagna necessariamente a tale miopia venga occupato da chi da sempre si arroga il diritto di stabilire istituzionalmente i valori ufficiali di riferimento. Non riuscire a creare il proprio bagaglio teorico di riferimento fa correre il rischio di finire dominati da ideologie già riconosciute oppressive.

Ma forse è giunto il momento di dare il nome alle cose: è necessario poter disporre di un fare politico che si riappropri del problema fittizio di “ salvare l’anima”; affrontare anche il malessere del vivere di soli beni materiali; trovare il coraggio di pensare alle esigenze psichiche , smettendo di confidare che la soluzione del problema consista nel lasciare che qualcuno si occupi di spiritualità; creare le condizioni culturali perché chi vive possa esprimere appieno le proprie potenzialità . E non può che essere la politica ad occuparsi dell’organizzazione di strutture sociali che permettano a tutti, dopo aver risposto ai fondamentali bisogni materiali, di accedere a quei livelli di conoscenza e di consapevolezza che permettano di recuperare ed accrescere le proprie individuali caratteristiche umane. Per muoversi in questo senso è indispensabile la libertà di pensiero, che è libertà di partecipazione, in cui il contributo individuale a realizzare il bene comune innesca un circolo virtuoso di libertà, ricerca, realizzazione.

 

Lo sport, che è qualcosa in più del gioco, pur conservandone tutte le caratteristiche, può essere un potente mezzo di diffusione di una cultura più vicina alla verità dell’uomo: è un’attività che non nasce esclusivamente dalla necessità di soddisfare un bisogno, ma risponde all’esigenza di esprimere un “movimento”, cioè di realizzare una potenzialità fisica ma anche psichica, di verificare i propri limiti in confronto con le capacità altrui; non ha altro fine che la realizzazione in sé; esprime una esigenza di socialità poiché può essere praticato solo se gruppi di persone concorrono per realizzare un fine comunemente accettato nel rispetto di regole condivise; ha la caratteristica, esclusivamente umana,   di essere una attività completamente inventata dalla fantasia in cui   riferimenti alla realtà sono solo metaforici; richiede un impegno totale di preparazione che consiste nell’individuazione delle potenzialità, nella ricerca degli strumenti per accrescerle, nell’applicazione necessaria per trasformarle in atto e dunque offre risultati che sono sempre e solo funzione della preparazione e della propria capacità di muoversi nella complessità del reale.

Qualcosa di simile all’espressione artistica, anch’essa esclusiva della specie umana, cioè qualcosa che non si muove nella sfera dell’utile, che non serve direttamente alla sopravvivenza, che non è esclusivamente razionale, ma che rappresenta una realizzazione individuale; qualcosa che permette di cogliere la corrispondenza tra la percezione delle potenzialità del sé e le cose realizzate; qualcosa che per essere compiuta ha bisogno di esprimere la sintesi armonica di potenza e bellezza.

Quando lo sport diventa qualcosa di diverso   significa   che elementi di convenienza, di calcolo, legati alla cultura del momento (cioè l’insieme dei “valori” prevalenti), si sovrappongono degenerandone le caratteristiche intrinseche.

Non è vero quindi che lo sport può essere solo quello che quotidianamente è sotto i nostri occhi.

Questo è lo sport di una società più o meno globalizzata che si basa su una cultura convinta che l’umano contenga in sé contemporaneamente l’elemento creativo e l’elemento distruttivo, il “bene” ed il “male”.

Una ben strana cultura, diffusa, che crea confusione persino in campo medico che dovrebbe avere chiara per definizione la differenza tra male e malattia: nonostante la scoperta di batteri, virus e quant’altro   compare ancora l’idea che la malattia rappresenti l’improvvisa emergenza del male, così come la stampa quotidiana viene affermando ogni qualvolta, di fronte all’esplodere di follie omicide parla di raptus, di persone del tutto normali che improvvisamente perdono il controllo e lasciano emergere il lato oscuro nascosta nei meandri della psiche di ognuno di noi!

Si finisce quindi per accettare supinamente l’idea che ogni cosa contenga anche il suo contrario, che la degenerazione sia l’evoluzione naturale della crescita, perdendo di vista che il male è invece “malattia” cioè una condizione in cui qualcosa smette di funzionare per una causa esterna.

Così si finisce per accettare il concetto della vittoria ad ogni costo perdendo di vista il fatto che invece esso è il frutto della sovrapposizione di una “cultura malata” ad una attività umana che sarebbe naturalmente sana.

Si preferisce dimenticare (o non notare) che la disponibilità a rischiare la vita per il successo può solo emergere come tentativo (malato) di salvare la vita psichica. Essere “il vincitore” diventa indispensabile quando al di sotto di questa medaglia non c’è altro che il vuoto, quando cioè è completamente fallito quel delicatissimo processo di crescita che consente all’uomo di realizzare la coscienza di sé, la propria immagine interna, quel sapere di sé che resta anche quando si prescinde da qualsiasi ruolo, da qualsiasi posizione o titolo sociale.

Lo sport reso commercio specula su questo vuoto interiore ed apre le porte a chi dolosamente promette di vendere formule miracolose che spianano la strada in salita verso la vittoria.

Lo sport drogato si “ammala” e invece di essere uno dei più importanti strumenti di realizzazione di sé si riduce a diventare solo un dispensatore di identità momentanee e fittizie; ma da tutti riconosciute come successo….

 

Dunque, lo sport malato della stessa malattia da cui è afflitta, forse universalmente, la cultura diffusa che ci appartiene, fa uso sia degli strumenti comuni nella società come

 

“Dop” è il nome che una popolazione Bantu dell’Africa orientale dava a sostanze che venivano assunte durante le cerimonie per trarne eccitazione fisica e per raggiungere uno stato mentale di prossimità al dio.

Popolazioni Andine usavano masticare regolarmente foglie di piante capaci di far meglio sopportare la fatica in condizioni ambientali sfavorevoli.

Doping è oggi (Congresso del C.I.O. di Strasburgo del 1963) la “somministrazione ad un soggetto sano di una sostanza estranea al suo organismo al fine di aumentare artificialmente ed in modo sleale le sue prestazioni in occasione di una competizione”.

 

 

DOPING

> News ANSA SALUTE sul Doping

 

News ANSA SALUTE

Una rassegna delle notizie ANSA SALUTE dal 1.10.2000 ad oggi sul doping, sulle sostanze dopanti e sulle loro conseguenze sulla salute.

 

> Le sostanze dopanti

 

STIMOLANTI

Sono eccitanti centrali che generalmente mimano l’azione dei mediatori prodotti dal sistema neurovegetativo simpatico nel corso dell’esercizio fisico e in situazioni di stress. Migliorano il grado di attenzione e concentrazione e aumentano la resistenza alla fatica e la tolleranza allo sforzo.

 

NARCOTICI

Fanno parte della classe degli oppioidi e derivati (morfina, eroina, metadone). Svolgono un’azione analgesica centrale e calmante. Vengono utilizzati per spegnere la sensazione dolorifica come nel pugilato; per contrastarne in parte l’effetto di spegnimento dell’attenzione vengono assunti in combinazione con sostanze stimolanti. Danno tossicodipendenza.

 

ANABOLIZZANTI

Gli steroidi anabolizzanti sono sostanze con azione simile a quella dell’ormone maschile testosterone. Le sostanze, come d’altra parte l’ormone, legandosi a specifici recettori cellulari inducono modificazioni tipiche legate alla differenziazione sessuale, principalmente un aumento della massa muscolare e della forza.

ORMONI PROTEICI, GLICOPROTEICI E ANALOGHI

Gli ormoni sono sostanze naturali che fungono da “messaggeri” all’interno dell’organismo. Questo gruppo di sostanze è disomogeneo, in quanto comprende sostanze non strettamente correlate farmacologicamente fra di loro.

 

DIURETICI

L’uso dei diuretici induce disidratazione; si tratta di una forma di doping specificamente adottata negli sport ove esistono categorie di peso come la lotta, il sollevamento pesi e il pugilato: il vantaggio che ne deriva è quello di gareggiare in una categoria inferiore sfruttando la struttura fisica che competerebbe ad una categoria superiore. Tuttavia, la disidratazione è causa di ridotta funzione neuromuscolare e di difficoltà di termoregolazione in quanto il processo di sudorazione è meno efficiente

 

> Procedure proibite

 

EMOTRASFUSIONE

L’emotrasfusione rappresentava lo strumento adottato per aumentare la massa dei globuli rossi e quindi la capacità di trasporto dell’ossigeno nel sangue. Attualmente la pratica è in disuso essendo stata soppiantata dall’assunzione di EPO.

 

MANIPOLAZIONE FARMACOLOGICA, CHIMICA E FISICA

Con questo termine si intendono procedure atte ad alterare i risultati dei test antidoping. Un esempio è rappresentato dall’assunzione del probenecid, un farmaco antigotta che inibisce la secrezione renale di ormoni steroidei e può quindi mascherare l’assunzione di anabolizzanti.

 

> Sostanze con restrizione

 

CANNABINOIDI

Gli effetti variano con la dose: a basso dosaggio si ha euforia, a dosaggio medio si ha disinibizione, a dosi elevate aggressività. Tuttavia vi è anche un complesso corredo di sintomi non necessariamente positivi ai fini della performance e che manifestano segno di sofferenza del sistema nervoso centrale: diminuzione della forza muscolare, della memoria, dell’equilibrio.

 

CORTICOSTEROIDI

Trattamenti prolungati con corticosteroidi sono possibili su precise indicazioni mediche (in particolare in caso di asma e rinite allergica).

 

BETABLOCCANTI

Si tratta di farmaci che, tra le loro azioni, riducono la frequenza cardiaca. In alcune discipline, come nei tiri (arco, carabina, pistola), l’agitazione fa aumentare la frequenza cardiaca e questo sicuramente disturba la fase di puntamento.

 

ANESTETICI

Si tratta di farmaci che bloccano reversibilmente la trasmissione dello stimolo dolorifico verso il sistema nervoso centrale. Iniezioni sistematiche sono considerate doping, mentre è invece permesso il trattamento locale. Gli effetti dannosi sono legati al passaggio in circolo dell’anestetico e coinvolgono principalmente il tessuto nervoso centrale e l’apparato cardiocircolatorio producendo tra l’altro alterazioni dello stato psichico (agitazione,depressione, insonnia), blocco atrioventricolare, collasso cardiocircolatorio, ipotensione